Dodici anni. Una manciata di secondi per dire “no”, e oltre un decennio per pagarne il prezzo. La storia arriva da Mozzate, provincia di Como, ma sembra uscita da un vecchio fascicolo dimenticato in fondo a un cassetto della burocrazia giudiziaria. E invece no, il tempo qui non ha cancellato nulla. Solo sedimentato, aspettato, lavorato in silenzio. E alla fine è tornato a bussare alla porta di un uomo di 56 anni, come un vecchio debito rimasto lì, tra le scartoffie e le omissioni. Quel rifiuto dell’alcol test ora presenta il conto.
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La vicenda risale a oltre dodici anni fa
Era il 13 gennaio 2013. Una domenica qualsiasi, una sera qualsiasi, una strada qualsiasi nella provincia di Milano. Un posto di blocco, qualche parola scambiata con la pattuglia, la richiesta di routine: “Si sottoponga all’alcoltest“. Il 56enne dice no. Rifiuta. Non oppone resistenza, ma decide di non soffiare. Lo sappiamo: la legge, da tempo, ha equiparato questo gesto a un’ammissione implicita. Il rifiuto è reato.
All’epoca, forse, quell’uomo ha pensato di cavarsela con una multa o un po’ di silenzio ben calibrato. Invece il tempo, beffardo ma diligente, ha continuato a lavorare. Fascicoli che si muovono, sentenze che maturano. Le scartoffie hanno una loro vita, magari lenta, ma metodica. E così, dodici anni dopo, la Polizia bussa alla sua porta. Ordine di carcerazione emesso dalla Procura di Monza. Fine della corsa.
Il carcere: una punizione dolorosa
Ora il 56enne è rinchiuso al Bassone, la casa circondariale comasca. Nove mesi di reclusione da scontare e 2.500 euro di ammenda da pagare. Una pena severa, certo. Ma forse più che dura, è emblematica. La giustizia, in Italia, ha spesso il fiato corto quando si tratta di efficienza, ma ha una memoria lunghissima. E sa prendersi le sue rivincite, anche a distanza di un decennio.
Questa vicenda, nella sua apparente semplicità, racconta più di quanto sembri. Intanto ci ricorda che il Codice non scorda. Chi immagina che il tempo possa cancellare certe colpe con l’indifferenza si sbaglia di grosso. Ma racconta anche altro: una sproporzione tutta italiana tra la gravità del fatto e il tempo che ci vuole per arrivare a una sentenza definitiva. Dodici anni per un reato minore. Un sistema che, per quanto giusto nella sua applicazione, resta claudicante nei suoi tempi.
Il tempo scorre inesorabile
Sì, perché da un lato non possiamo che applaudire alla coerenza: chi sbaglia paga, anche se ha creduto di farla franca. Dall’altro, però, la lentezza diventa paradosso. È legittimo domandarsi che senso abbia mandare in carcere oggi un uomo per un reato che risale all’epoca di Enrico Letta premier e Balotelli con la maglia numero 9 nell’attacco del Milan. L’uomo di oggi non è più quello del 2013. Dodici anni cambiano una persona. La punizione, che dovrebbe avere anche un valore educativo e preventivo, rischia di arrivare come un fulmine in un cielo che ormai credevi sereno.
Eppure, qualcosa ci dice che è giusto così. Perché lo Stato, almeno in questo caso, non ha dimenticato. Ha solo atteso il suo momento. Un po’ come certi creditori che non bussano ogni giorno, ma che alla fine tornano, col conto aggiornato e senza sconti. È una forma di giustizia spietata nella sua geometria, ma che parla chiaro: certi errori si pagano, magari tardi, ma si pagano.
Oggi, infine, rifiutarsi di sottoporsi al test dell’etilometro è equiparato alla guida in stato di ebbrezza grave (fascia più alta, oltre 1,5 g/l), anche in assenza di sintomi evidenti.