Emanuele De Maria da detenuto modello all'omicidio - suicidio, lo schema e la telefonata: parla la criminologa

L’opinione della criminologa su Emanuele De Maria e l'omicidio-suicidio: “Il problema non è l’esiguità della pena, ma il come viene scontata

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Ha tenuto con il fiato sospeso per 48 ore il caso di Emanuele De Maria, l’uomo detenuto nel carcere di Bollate, che di giorno lavorava in un hotel grazie a dei permessi. Il 35enne si è suicidato gettandosi dal Duomo di Milano, dopo aver ucciso la collega Chamila Wijesuriya e averne ferito un altro, Hani Nasr. Dietro alla tragedia, come appurato dagli inquirenti, una storia di gelosia. Ai microfoni di Virgilio Notizie, l’analisi della criminologa Roberta Catania, psicologa e psicodiagnosta clinica e forense.

La tragedia: dalla gelosia ai delitti

Tutto è iniziato quando di Emanuele De Maria, che dal 2023 lavorava alla reception dell’hotel Berna, vicino alla stazione centrale di Milano, ha fatto perdere le sue tracce.

Da venerdì 9 maggio, infatti, si era dato alla fuga in seguito all’accoltellamento di un collega e dopo che le telecamere del parco Nord, alla periferia della città, lo avevano ripreso insieme a Chamila Arachchilage Dona Wijesuriya, 50enne italo-cingalese, anche lei impiegata nell’albergo e anche lei scomparsa, inizialmente, nel nulla.

Il ritrovamento della donna e il suicidio

L’epilogo si è avuto domenica 11 maggio, quando De Maria si è lanciato dalla terrazza del Duomo, sotto gli occhi sgomenti di decine di milanesi e turisti che intorno alle ore 17 si trovavano presso la Cattedrale.

Nelle stesse ore è stato anche trovato il cadavere della collega, su cui è stato possibile riconoscere tagli a gola e polsi.

Secondo le ricostruzioni degli investigatori, anche sulla base del contapassi della donna, sarebbe morta sempre domenica 11 maggio, alle ore 15:30 circa.

Chi era Emanuele De Maria

Emanuee De Maria era stato condannato a 14 anni, pena ridotta a 12 in appello, per l’omicidio di una prostituta 23enne di origine tunisina, Racheb Oumaima, uccisa nel 2016 a Castel Volturno, in provincia di Caserta.

Anche in quel caso era poi fuggito (in Sassonia al confine tra i Paesi Bassi e la Germania), rimanendo latitante per due anni.

Una volta catturato, aveva scelto il rito abbreviato ed erano state escluse tutte le aggravanti, dalla premeditazione ai motivi abbietti, fino alla crudeltà.

Infine, il carcere: prima Secondigliano, poi Rebibbia e infine Bollate.

“Apprezzerei se qualcuno mi scrivesse una lettera. Potete anche scrivermi in tedesco, olandese, inglese, croato e ovviamente italiano”, avrebbe dichiarato in una intervista, citata dal Corriere della Sera.

Dall’omicidio al suicidio

Da due anni godeva del permesso di lasciare il carcere di Bollate di giorno, per lavorare presso lo stesso hotel di Chamila, mentre alla sera tornava in cella.

Era ritenuto un detenuto modello: prima di accoltellare un altro collega, uccidere la donna e togliersi la vita a sua volta, aveva usato il cellulare di Chamila per chiamare la madre e anche la cognata, alla quale avrebbe detto: “Vi chiedo perdono, ho fatto una c******“.

Il movente

Il cellulare della donna è stato poi trovato in un cestino della spazzatura da un addetto dell’azienda di trasporto pubblico milanese.

Il marito, al Corriere della Sera, avrebbe raccontato di aver messo in guardia la moglie da quell’uomo, dicendole di “stare attenta” perché “ha ucciso una donna”.

Alla base del suo duplice folle gesto ci sarebbe proprio la gelosia: Chamila, sposata e madre di un figlio, aveva iniziato una relazione con De Maria, che sarebbe stato geloso di un altro collega, poi accoltellato dall’uomo, ma non in pericolo di vita.

“Non so spiegarmi perché ce l’avesse con me, non abbiamo mai avuto problemi – ha raccontato ai poliziotti l’uomo -: una volta avevo visto lui e Chamila che si appartavano e quindi le avevo detto di fare attenzione a lui, di stargli lontano”, ha rivelato ancora agli investigatori, coordinati dal pm Francesco De Tommasi.

L’intervista a Roberta Catania

Si parla di gelosia come possibile movente. È possibile, secondo lei, da quanto appreso finora?

“L’impressione è che più che per gelosia nei confronti del collega, De Maria possa essersi sentito minacciato perché l’uomo potrebbe aver messo in guardia la collega rispetto a De Maria, dopo aver scoperto della loro relazione, che per lei era extraconiugale. In questo caso e se la donna avesse voluto interrompere il rapporto, De Maria potrebbe aver agito spinto dal senso di controllo e possesso che si può ritrovare in molti casi di femminicidio”.

Ci potrebbe essere qualcosa in comune con il precedente omicidio che aveva commesso?

“De Maria sembra avere agito con le medesime modalità, per esempio con un’arma bianca usata per ferire alla gola. Potrebbe aver messo in atto uno schema che gli apparteneva, considerando la storia di un omicidio pregresso: non si tratterebbe, quindi, solo di una reazione a uno specifico caso, quanto piuttosto della sua incapacità di gestire un rifiuto”.

Quindi ancora una volta si sarebbe in presenza di una mancanza di accettazione del rifiuto, se così fosse? E cosa rappresenterebbe il ritrovamento, nelle tasche di De Maria, di una foto della collega Chamila Wijesuriya Arachchilage Dona e una bustina con una ciocca di suoi capelli?

“Se confermato, questo particolare farebbe pensare che si tratti di un feticcio: sottrarre qualcosa della donna indicherebbe un legame totalizzante, l’idea che l’altro (in questo caso l’altra) mi appartiene, anche dopo la sua morte. Se porto via qualcosa che mi serve a mantenere vivo un contatto, non vivo però il rapporto come una relazione sana d’amore. In questo schema, supponendo che sia quello corretto del caso in questione, non è contemplato che l’altro si sottragga alla relazione. È un aspetto ossessivo della personalità che, pur non volendo fare diagnosi specifiche, è ricorrente in episodi di femminicidi, insieme al bisogno di controllo e all’ossessione per l’altra”.

È possibile che ci siano segnali-spia di comportamenti come questo o, invece, si possono camuffare?

“Purtroppo questo è un aspetto problematico di casi analoghi. Ci sono molti esempi del passato, come quello di Angelo Izzo che, dopo aver ottenuto la semilibertà, mise in atto la strage del Circero. Alcuni soggetti possono essere in grado di manipolare l’interlocutore con comportamenti ritenuti socialmente accettabili. Possono apparire socialmente inserito e, nel caso di De Maria, il fatto che l’hotel volesse persino assumerlo a tempo indeterminato lascia pensare che l’uomo potesse essere in grado di nascondere molto bene la sua personalità. Pensiamo anche ad Alessandro Impagnatiello (accusato dell’omicidio della compagna Giulia Tramontano, NdR): anche lui non aveva dato segnali apparenti di comportamenti disfunzionali”.

De Maria era impiegato come receptionist in un hotel, appunto, a 9 anni dall’omicidio commesso nei confronti di una prostituta e mentre doveva scontare 14 anni, poi ridotti a 12 in appello. In molti oggi si chiedono se non si tratti di una pena troppo esigua.

“La condanna, che potrebbe apparire lieve, è dovuta al fatto che non gli sono state riconosciute le aggravanti. Ma il problema forse è piuttosto la valutazione del soggetto, anche dopo la sentenza. Era già stato in diversi istituti di pena e questo lascia pensare che non ci sia stata una continuità nel percorso di valutazione sulla sua riabilitazione. È un dubbio, che però si unisce ad un altro interrogativo: ci sono risorse sufficienti per valutare ogni singolo soggetto? Quanti professionisti lavorano a questo rispetto al numero di detenuti? Perché se mancano risorse e tempo, è chiaro che anche le valutazioni possono essere più superficiali, per forze di causa maggiore”.

Il problema, quindi, non sarebbe tanto la durata della pena, ma il modo di scontarla?

“Esatto. È vero che De Maria aveva commesso lo stesso tipo di reato in precedenza, un omicidio brutale, quindi è chiaro che c’era una disfunzionalità nella personalità che andava attenzionato. Inserirlo in un contesto, come quello di una reception di un hotel, che favorisce le relazioni forse avrebbe necessitato di maggiori controlli. Non significa negare le concessioni, come la possibilità di un reinserimento sociale, di sconti di pena o permessi, ma certamente accompagnarlo con le dovute valutazioni che sia garanzia di sicurezza per tutti i cittadini”.

emanuele-de-maria-omicidio-suicidio Fonte foto: ANSA