Fino a 10 anni di carcere per chi spia le chat su WhatsApp, cosa dice la sentenza della Cassazione sul reato

Una sentenza della Cassazione ha stabilito che spiare le chat di WhatsApp è un reato che può costare fino a dieci anni di carcere a chi lo commette

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Spiare le chat su WhatsApp è reato e si rischia fino a 10 anni di carcere. Con una sentenza la Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da un uomo che a dicembre era stato condannato dalla Corte d’Appello di Messina per aver estratto alcuni messaggi dai telefoni dell’ex moglie per farli valere come prova a suo favore nella causa per la loro separazione.

Perché spiare le chat di WhatsApp è reato

La nuova sentenza della Cassazione ha stabilito che “violare lo spazio comunicativo privato di una persona, abbinato a un telefono cellulare nella sua esclusiva disponibilità e protetto da password, integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico“. Anche l’applicazione di messaggistica istantanea, quindi, stando a quanto affermato dalla Cassazione, può essere ritenuta un “sistema informatico”.

L’accusa può prevedere fino a 10 anni di carcere.

chat WhatsApp carcere sentenza Cassazione reatoFonte foto: iStock

La sentenza della Cassazione sul caso a Messina

A riportare i dettagli della storia che ha portato alla sentenza della Cassazione è stato Il Messaggero. La moglie dell’uomo ha denunciato a marzo 2022 il marito per atteggiamenti molesti e ossessivi, tra cui il controllo del suo cellulare.

La donna ha accusato l’uomo di “averle controllato il telefono da cui aveva estrapolato alcuni messaggi da una chat con un collega di lavoro, inviandoli ai suoi genitori per sostenere la tesi di un rapporto sentimentale tra i due”.

In un’integrazione di querela del marzo 2023, la moglie ha denunciato “di aver scoperto che l’ex marito aveva estratto, da un telefono cellulare che usava per ragioni di lavoro e che non trovava più da tempo, diversi screenshot dal registro chiamate e dalla messaggistica, consegnandoli al suo legale, che li aveva prodotti in sede di giudizio civile, ai fini di addebito della separazione”.

A detta della donna, inoltre, “nella memoria depositata dal legale del suo coniuge, erano inclusi anche screenshot estratti da un altro telefono cellulare, a lei ancora in uso, e che non comprendeva come ciò fosse potuto succedere in quanto entrambi i cellulari erano protetti da password”.

Le motivazioni della Cassazione

Secondo la Cassazione, nel caso di Messina in esame, non ci sarebbe dubbio che l’uomo abbia “arbitrariamente invaso la sfera di riservatezza della moglie con l’intrusione in un sistema applicativo” che dovrebbe essere riservato al solo proprietario del mezzo, se non con il suo consenso”.

Anche in presenza del consenso, gli Ermellini hanno chiarito che il reato non si verifica solo con l’accesso in sé, ma anche con il “mantenimento nel sistema posto in essere da chi violi le condizioni e i limiti” stabiliti dal proprietario del dispositivo in questione.

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