Francesco Acquaroli da Suburra alla serie su Amanda Knox, "il male può annidarsi nella normalità"
Da killer spietato a filosofo in scena: l'intervista Francesco Acquaroli, attore in arrivo su Disney+ con la serie su Amanda Knox
Francesco Acquaroli non è solo un attore. È una presenza, una voce che resta anche quando cala il sipario o finisce l’episodio. È uno di quegli interpreti capaci di farti dubitare, parteggiare, cambiare idea, a volte tutto nel giro di una scena. Dallo spietato Samurai di Suburra al tormentato Catapano di Sara – La donna nell’ombra, passando per i ruoli magnetici che ha portato sul palco, è sempre lì: preciso, profondo, mai banale. Dietro la durezza apparente dei personaggi che interpreta, c’è invece un uomo che riflette, ascolta, sceglie con cura ogni parola. Nell’intervista concessa a Virgilio Notizie si racconta con autenticità, s’interroga sul presente, sulla memoria corta della storia, sul bisogno di verità. Torna in teatro con Rosencrantz e Guildenstern sono morti, approda su Netflix e Disney+ con ruoli intensi e sfaccettati, ma mantiene saldo un centro umano che traspare in ogni risposta.
È appena tornato in teatro con Rosencrantz e Guildenstern sono morti, che a novembre sarà in giro per l’Italia. Quale dei due personaggi interpreta?
“Interpreto Guildenstern. È un ruolo affascinante, perché rappresenta la parte più riflessiva, filosofica, quasi esistenzialista del duo. È un personaggio che si interroga costantemente sul senso delle cose, sulle parole, sul tempo. È una grande sfida interpretativa e anche una grande occasione per parlare di temi profondi con leggerezza e ironia”.
US Lorella Di Carlo
Perché riportare oggi in scena un testo come questo, scritto negli anni ’60?
“Perché è un’opera che non invecchia. Il testo non è legato a un’epoca specifica e affronta temi universali: il disorientamento dell’essere umano, il mistero dell’esistenza, la sensazione di essere dentro una storia più grande, scritta da altri. È una metafora potentissima della condizione umana. Abbiamo solo adattato un po’ il linguaggio, reso alcune battute più dirette, più secche, senza però toccare l’impianto originale. Il risultato è che oggi, come ieri, il testo continua a parlare in modo lucido e tagliente”.
In scena con lei ci sono Francesco Pannofino e Paolo Sassanelli. Che tipo di alchimia si è creata?
“È una bella alchimia, sincera e spontanea. Non ci conoscevamo così bene prima di lavorare insieme, ma fin dalle prime prove abbiamo scoperto di essere sulla stessa lunghezza d’onda. C’è una complicità sul palco, ma anche una rivalità sana, quella che ti stimola e ti fa dare il meglio. Ognuno ha un’energia diversa, ma complementare. È raro trovare un equilibrio del genere: rende il lavoro più intenso ma anche più divertente.
Guildenstern è un personaggio molto razionale, ossessionato dal linguaggio. Si ritrova in lui?
“Sì, forse anche troppo. A volte mi piacerebbe essere più istintivo, ma tendo a pesare le parole. Credo che ogni parola abbia un peso, un valore, e non vada usata a caso. Anche in un’intervista, mi capita di pensare molto a quello che sto per dire. È un approccio che sento necessario, soprattutto in un’epoca in cui le parole si sprecano facilmente”.
Quali parole l’hanno segnata nel suo percorso, sia personale che professionale?
“Non accontentarti mai. Non devi pensare di essere arrivato. Devi rimanere sempre in ricerca, sempre inquieto. Ogni cosa che fai può essere fatta meglio. È un’attitudine che ti tiene vivo, ti impedisce di sederti sugli allori. E questo vale sia nella vita che sul palco”.
Quando ha capito che la recitazione era la sua strada?
“È arrivata come una conferma, più che come una scelta razionale. Durante i primi saggi, le prime esibizioni, ho sentito qualcosa che mi diceva: Questa è la tua direzione. Poi, certo, ci sono stati dei consigli preziosi lungo la strada, come quello di non farsi ingabbiare dal narcisismo. È un rischio reale per chi fa questo mestiere, ma è anche una trappola che può svuotarti”.
Il suo percorso è stato frutto di una scelta o del destino?
“È sempre difficile dirlo con certezza. La decisione di fare l’attore è stata mia, è venuta da una spinta interiore, quindi direi libero arbitrio. Ma gli incontri, le occasioni, i momenti in cui succede qualcosa che cambia tutto… quelli appartengono al destino. E cos’è il destino? È dentro di noi o fuori? Non lo sappiamo. È un interrogativo che resta aperto, ed è proprio questo che lo rende affascinante.
Le piace il suo presente?
“Sul piano personale sì, sono sereno. Sul piano professionale sono molto soddisfatto: sto lavorando a progetti importanti, con ruoli che mi stimolano. Ma se guardo al mondo, all’attualità, vedo un ritorno preoccupante all’odio, al fanatismo, alla disumanità. La storia non ha insegnato abbastanza. Sembra che solo il sangue riesca a placare certe crisi. È desolante”.
Nella serie Netflix Sara – La donna nell’ombra, interpreta Catapano, un personaggio molto particolare, anche omosessuale. È stato difficile non cadere nel cliché?
“No, non è stato difficile. Prima di tutto, perché è scritto con rispetto e senza stereotipi. Poi perché per me non c’è nulla di diverso o strano nell’orientamento sessuale. Non deve diventare una macchietta. Non ho mai capito perché si debba ancora discutere dei gusti sessuali degli altri. È una questione di libertà. E, se in passato abbiamo avuto rappresentazioni ridicole (penso ad esempio a Il vizietto, due grandi prove attoriali ma una scrittura che suscita perplessità), oggi abbiamo il dovere di fare meglio”.
A breve la vedremo in The Twisted Tale of Amanda Knox su Disney+, dove interpreta il PM Mignini. È stato complesso confrontarsi con una storia così complicata?
“Sì, ma in un modo stimolante. Ho scelto di non incontrare Mignini prima delle riprese, perché volevo lavorare sul personaggio della sceneggiatura, non sulla persona reale. Ho studiato molto, ho guardato documentari, ho cercato di capire la postura mentale di un uomo di legge. È un personaggio delicato, controverso, ma mi sono immerso senza giudizio, cercando di restituirne la complessità. E anche in questo mi ha aiutato fare riferimento alla figura di mio padre, che era un avvocato penalista”.
US Disney+
Perché siamo, secondo lei, così attratti dai casi giudiziari come quello di Amanda Knox, di Chiara Poggi o di Yara Gambirasio?
“Perché parlano di noi. Ci mostrano quanto il male possa annidarsi nella normalità. Sono storie che colpiscono perché spezzano vite giovani, apparentemente comuni. E il fatto che spesso restino irrisolte ci tiene incollati. Vogliamo capire, vogliamo trovare un senso. Ma il più delle volte non c’è una risposta chiara”.
Ha definito il set sul lavoro americano “molto gratificante”. Perché lo è stato così tanto?
“Perché ho sentito fiducia nei miei confronti. Il ruolo era importante, mi hanno dato spazio per proporre idee, per modellarlo. Il mio punto di vista è stato accolto. È stato tutto molto rispettoso, creativo. Ed è raro: quando capita te lo godi fino in fondo”.
Cosa significa per lei oggi il “successo”?
“Non lo so con certezza. Forse significa avere la possibilità di scegliere, di lavorare su cose che ti stimolano. Non lo misuro con premi, da cui mi hanno sempre tenuto lontano, o copertine. Se arrivi a fare progetti in cui credi, allora sei fortunato. E forse anche un po’ di successo ce l’hai.
C’è stato un momento in cui per un progetto si è chiesto “chi me l’ha fatto fare”?
“Sì, come tutti. Ci sono lavori meno entusiasmanti, progetti che sulla carta sembravano forti e poi non decollano. In quei momenti devi ricordarti che è un lavoro. Non puoi pretendere che sia sempre arte pura”.
Netflix
Quanta etica del lavoro c’è in lei?
“Molta. Credo fermamente nell’impegno e nella responsabilità. Questo è un mestiere che va preso sul serio, anche quando si fa ridere. Non credo alle storie del tipo ci sono arrivato per caso. Per me è una scelta forte, totalizzante. Non c’è spazio per l’approssimazione”.
Hai mai rinuncia a qualcosa di grande per il suo lavoro?
“Sì, probabilmente alla possibilità di avere dei figli. Quando ero più giovane, la mia vita era instabile e non volevo coinvolgere nessuno in quella precarietà. Poi, quando abbiamo provato ad averli, non sono arrivati. È una ferita, certo, ma fa parte della vita”.
Molti cattivi nel suo curriculum: si diverte di più?
“Sì, perché sono più sfaccettati, più imprevedibili. Ma la vera sfida è sempre quella di essere credibile. Non importa se sei buono o cattivo: importa che il pubblico ti creda”.
Cosa la preoccupa oggi?
“Sono molto preoccupato per quello che sta succedendo nel mondo. Vedo un’umanità che ripete errori tragici con leggerezza. È come se avessimo dimenticato le lezioni del passato. E questa cosa, sinceramente, mi spaventa. Mi sento un po’ come Guildenstern: smarrito e pieno di domande senza risposta”.
