Francesco Montanari e il successo di Maschi Veri, l'intervista all'attore dal matrimonio al teatro

Francesco Montanari si racconta dopo il successo di "Maschi Veri": l'intervista all'attore, dal matrimonio alla domanda che gli ha cambiato la vita a 14 anni

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Francesco Montanari attraversa oggi uno di quei momenti che non si dimenticano: un tempo di passaggio, denso di cose che iniziano, che si chiudono, che cambiano direzione. Sul piano professionale, è reduce dal successo di Maschi veri, la serie Netflix che ha rimesso al centro il discorso sulla mascolinità contemporanea con ironia e coraggio. Sul piano personale, è prossimo al matrimonio con la psicologa Federica Sorino: “Lo faccio perché sono innamorato e perché voglio tutelare legalmente questa relazione”. E poi c’è il teatro, il suo primo amore, che oggi torna ad abbracciarlo con un ruolo diverso: insieme a Davide Sacco, è alla guida di Narni Città Teatro, un festival che negli anni si è affermato come spazio vivo, inclusivo, libero, in cui fare cultura significa innanzitutto creare comunità. L’intervista concessa a Virgilio Notizie.

Se Francesco Montanari dovesse descrivere questo suo momento della vita con un’immagine, quale sceglierebbe?

“Direi una nave. Un veliero, per la precisione, con le vele gonfie di vento e con il mare piatto. È un’immagine che mi rappresenta bene in questo periodo: sento una spinta, un’energia che mi muove, eppure non so bene cosa ci sia oltre la cornice. Non è un momento tranquillo, ma è pieno di stimoli”

In Maschi veri interpreti Riccardo, un personaggio che rompe certi stereotipi sulla mascolinità. Hai mai sentito anche tu il peso dell’ideale del “maschio vero”?

“Sì, assolutamente. Forse non con la stessa esasperazione di Riccardo, ma ci sono passato. Anch’io ho vissuto per anni con l’idea di dover apparire come una quercia o un muro solido su cui poggiare le proprie membra stanche, chiamato a proteggere e senza la possibilità di concedersi attimi di fragilità”.

Ciò non ti ha causato sofferenza?

“Me ne ha creata molta. Senza volerlo, illudeva non solo gli altri ma anche me stesso il mostrarmi così centrato ed equilibrato quando in realtà anch’io ero alla continua scoperta. La maschera che indossavo molto spesso non corrispondeva a ciò che stavo vivendo”.

Pensi che la maschera ti sia stata appiccicata addosso anche dai ruoli che hai interpretato nel tempo?

“Sì, è inevitabile. Ma è accaduto anche prima che cominciassi a recitare in maniera professionale. La mia fisicità, la voce profonda e uno sguardo che facilmente mi colloca in ruoli forti, dominanti agli occhi dei registi, del pubblico e dei produttori: l’audiovisivo si poggia sull’immagine e l’impatto iniziale è quello che lascia il segno. È solo dopo, con il tempo e una carriera longeva alle spalle, che puoi sperimentare e provare a far altro in tentativo di continua evoluzione: è il destino di tutti gli attori. Ma la verità è che io questa cosa la portavo con me già da prima di diventare attore. Già da ragazzo sentivo che dovevo corrispondere a un certo ideale di maschio. Sono stato chiamato per tanti anni a essere rassicurante, calmo e protettivo, a discapito della mia fragilità”.

Francesco MontanariFonte foto: US: Lorella Di Carlo
Francesco Montanari sul set di “Maschi Veri”

Che modelli maschili avevi da giovane? Oggi li riconfermeresti o ti allontaneresti da loro?

“Probabilmente mi allontanerei. Crescendo ho sentito la necessità di prendere le distanze da certi riferimenti. Mio padre, per esempio, è stato un uomo molto austero, molto retto. Anche lui ha sempre cercato di non mostrare debolezze, soprattutto ai figli. Ma oggi mi rendo conto che quel modello non funziona più: grazie alla sacrosanta battaglia del femminile, è andato incontro a scombussolamenti sociali importanti. Non regge più il modello del Marlon Brando de’ noantri o dell’uomo che non deve chiedere mai, quello che costretto in una gabbia inevitabilmente tende a mentire e a esperire le sue fragilità in maniera nascosta per il timore di minare il rapporto con l’altro qualora si mostri fallibile”.

Come vivi le tue fragilità?

“Ho intrapreso una strada lavorativa che, trattando dell’umano, mi ha permesso di dare sfogo ai miei sentimenti e alle mie emozioni dentro ai personaggi. Forse sono stato più facilitato di altri nel pormi determinate domande con fini lavorativi, domande che con il tempo sedimentano e maturano dentro di te. Su certe questioni come la paura o il non sentirsi all’altezza non ho un senso del pudore comune: sono qualcosa che navigo tutti i giorni come attore, direttore artistico o insegnante. Oltre che fonte di costante spunto e confronto: la ricchezza di un attore consiste nella capacità di togliere quante più difese possibile. È, però, quando torno alle amicizie di un tempo, ai miei compagni di vita impegnati in professioni anche loro performanti ma diverse dalla mia, che certi campanelli bussano nuovamente alla porta”.

Quanto ha avuto paura di fallire Francesco Montanari?

“Tanta, ancora tutti i giorni: è l’altra faccia della medaglia di un mestiere come mio, sempre soggetto al giudizio percettivo altrui. Al di là delle tue qualità intrinseche di attore, c’è sempre il gusto personale dell’altro che entra in gioco. Le prime difficoltà arrivano al momento del provino, quando già riesci a farne uno: per farcela, devi corrispondere a tante variabili che passano dal produttore al distributore e alla scelta generale del cast. E il no è dilaniante. Razionalmente, sai che non è alla tua persona ma, se fai una professione in cui il tuo corpo, la tua voce e il tuo sguardo sono lo strumento con cui lavori, quando vieni rifiutato il rischio è di sentirti sbagliato tu, minando fortemente la tua sicurezza interiore. All’inizio, per me, è stato durissimo: ho capito solo pian piano che faceva parte del mestiere e che aiutava a crescere anche in consapevolezza”.

Cosa ti ha spinto a non demordere?

“L’essere entrato all’Accademia d’Arte Drammatica a 18 anni a fronte di tantissime domande di ammissioni e la fortuna di essere stato due anni in tournée per uno spettacolo in cui facevo una figurazione speciale. Dopo il grande successo della serie Romanzo criminale, c’è stato un periodo per me buio nell’audiovisivo ma è in quel momento che ho capito quanto il Libanese chiamasse pubblico in teatro. Ho cominciato, dunque, a farlo sia per pagare l’affitto sia per allenarmi come attore raccontando storie che mi interessavano. È così che è cominciata la mia avventura teatrale, quella che mi ha fatto crescere molto come professionista e credo anche come persona. Non che sia migliorato ma sono sicuramente cresciuto”.

Hai da poco compiuto 40 anni: ha vissuto la crisi dei 40 Francesco Montanari?

“Paradossalmente, ho sofferto più i 39 anni per l’idea dei 40 che arrivavano. Poi, mi sono come liberato e oggi mi sento molto carico e positivo: ho ancora tantissimo da lavorarci ma mi sembra di avere quasi afferrato le redini della mia vita. Al di là dell’imprevisto e della sorte, comincio a essere meno dispersivo sulle mie scelte e più deciso sui confini. Mi sembra un periodo di conquista anche di autostima”.

Maschi veri gioca con gli stereotipi per decostruirli. Qual è lo stereotipo più comune che aleggia su Francesco Montanari? Cosa ti farebbe paura che si dicesse sul tuo conto?

“Ne ho sentite talmente tante su di me che penso sia stato detto tutto. Soprattutto negli ultimi anni, da quando quelle vetrine pubbliche che sono i social hanno legittimato il giudizio anche quando non mosso da un motivo o da una riflessione necessari. Sono oggi così fiero di me stesso di aver smesso di cercare l’autorizzazione e l’approvazione di tutti”.

Cosa ti ha fatto capire che non servivano?

“Era qualcosa che, purtroppo, mi uccideva. Il teatro, direi: è un banco di prova concrete che tutte le sere ti espone al giudizio altrui, a parole spesso buttate in maniera superficiale senza un reale approfondimento critico dietro. Anche quando leggi quella sfilza di aggettivi qualificativi dozzinali buttati lì a caso, devi comunque tornare il giorno dopo in scena. Ed è stato questo a insegnarmi a capire che non sarei mai piaciuto a tutti: dovevo semmai essere in pace con me stesso, nella professione come nella vita”.

A Narni Città Teatro porti in scena Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, un monologo su un personaggio che prende il sopravvento sull’attore. Hai avuto paura che potesse accadere anche a te?

“No, ma credo di esserci andato vicino. Ho temuto che la potenza di un personaggio, il Libanese, interpretato in un momento in cui ero sconosciuto ai più potesse incastrarmi nelle sue corde e basta, sempre ovviamente in base alla percezione altrui: non tanto del pubblico ma degli addetti ai lavori. Più che paura è stato qualcosa che ho vissuto effettivamente sulla mia pelle”.

Narni Città Teatro, appunto. Come lo presenteresti a chi non lo conosce?

“È un festival che vuole essere una casa. Per chi fa arte, per chi la ama, per chi vuole viverla. In tre giorni, più di 85 eventi. Ospiti straordinari come Saviano, Bergonzoni, Piovani e De Gregorio, ma anche tanti nomi nuovi, esperienze da scoprire. Rispetto allo scorso anno, con la curatela di Antonella Liuzzi, ci siamo aperti anche alle altre arti performative per offrire allo spettatore un vasto ventaglio di possibilità. Per cui, Narni dal 6 all’8 giugno diventa un teatro a cielo aperto. Si ride, si pensa, si condivide: questo per noi è il senso profondo del fare cultura. Siamo convinti che gli artisti in questo momento storico nel nostro Paese si sentano un po’ spersi. Non avere un ritrovo, un punto di riferimento o una casa, mina la loro identità. È paradossale, senza voler fare polemica, che non esista un albo per noi attori. La nostra è una professione, non un hobby, e ciò implica una competenza obiettiva: possibile che ci si debba sentire soli perché non c’è un collocamento dove piazzare e fare provini? È un sistema che andrebbe, secondo me, revisionato. Come, non lo so: non ho le risposte, altrimenti lo farei. Fortunatamente, grazie agli sponsor privati che hanno sposato il valore della cultura, si sta facendo avanti l’idea di quanto questa sia preziosa: occorre combattere il concetto per cui deve essere affidata all’elemosina privata perché è imprenditoria reale e quello per cui è “noia””.

Fare teatro oggi in Italia è ancora un atto politico?

“Non so se sia un atto politico ma è uno dei pochi spazi in cui sei te stesso più che mai. In un mondo dove siamo sempre distratti o con lo smartphone in mano, il teatro è uno dei pochi luoghi dove siamo costretti a essere presenti a noi stessi nell’arco di una rappresentazione. È un’esperienza sacra per la crescita interiore: non perché abbia le risposte, non le ha mai avute, ma perché ti aiuta a farti le domande giuste e a mostrarti come siamo fatti, innescando un lavorio interiore anche inconsapevole”.

Francesco MontanariFonte foto: US: Lorella Di Carlo
Francesco Montanari a teatro

Cosa ti commuove della recitazione su un palco?

“È la rappresentazione massima della forza e dell’intenzione del pensiero che diventa azione. Accade su un palco ma anche su un set, dove basta la parola azione per far sì che si crei quella bolla di cristallo in cui accade la scena tra due esseri umani che fino a cinque secondi prima erano distratti dal mondo circostante. Ed è un atto veramente potente”.

Ti sei mai chiesto “Che ci faccio qui? Era questa la mia strada?

“Praticamente ogni giorno: il lavoro artistico è sempre critico, ti spinge a essere sempre diverso e a ricominciare percorsi. Devi avere l’energia e devi trovare il modo per essere pronto alla nuova chiamata: psicologicamente, non è sempre facile. Ma, al di là della tentazione continua, non ho mai mollato: mi nutro della mia passione, senza la recitazione rischierei di morire. Per lasciarla, dovrei trovare qualcosa che abbia la stessa forza, la stessa capacità di accendermi dentro e la stessa violenza emotiva. E non l’ho ancora trovata”.

Sei sempre riuscito a separare vita privata e lavoro?

“No. E non credo sia possibile, né auspicabile. Quando fai questo mestiere in modo autentico, ti porti dietro tutto: emozioni, lutti, gioie, fratture, amori. Tutto entra in scena, anche se non te ne accorgi. Il confine tra Francesco uomo e Francesco attore non è netto. Ed è giusto così. Perché l’attore è il materiale stesso della sua arte. Le parole sono convenzioni, ma quello che le muove è reale. La rabbia, l’amore o la paura sono sentimenti tuoi, personali, che scegli di far vivere in quel momento, in quel personaggio. Non metto da parte le emozioni per recitare. Al contrario: le uso, le canalizzo. Anche il dolore, anche una separazione, anche un lutto”.

Hai mai usato un personaggio per dire qualcosa che da uomo non saresti riuscito a dire?

“Tutte le volte. Davvero, tutte. Perché i personaggi non esistono per conto loro: sono carta, sono nero su bianco. Sei tu che gli dai voce, corpo, intenzione. E nel farlo, inevitabilmente, ci metti dentro quello che non riesci a dire da te. E il bello è che ogni sera cambia. Perché cambi tu. Magari una sera sei arrabbiato, e quella rabbia entra nel personaggio. Un’altra sera sei fragile, e anche quella fragilità trova la sua strada. È un lavoro che ti scava. Non puoi mentire troppo a lungo. Non puoi forzare quello che non sei in quel momento. Se lo fai, risulti falso. E il pubblico lo sente”.

In Maschi veri, cosa ti ha insegnato il personaggio di Riccardo sul Francesco Montanari uomo?

“Riccardo è uno schiavo di un’idea tossica: quella secondo cui un uomo ‘ha bisogno’ di avere relazioni sessuali multiple per natura. Un’idea che ci raccontiamo tra maschi da secoli, per giustificare comportamenti che in realtà sono scelte, non impulsi ineluttabili. È una bugia comoda. Eppure, ci costruiamo sopra vite intere. Questa serie, e anche il confronto con i miei colleghi e le nostre meravigliose compagne, mi ha fatto riflettere su quanto ci raccontiamo frottole, pur di non mettere in discussione certi privilegi e la normalizzazione di certi comportamenti, come quelli che nascono dalla goliardia per strada rispetto al sesso femminile. E la normalizzazione è un grande problema, che andrebbe superato in ogni ambito”.

Nel processo di crescita, ti sei mai chiesto chi sei davvero? Hai mai avuto dubbi sulla tua identità?

“Sì, me lo sono chiesto, e molto presto. Ricordo con chiarezza un momento in prima liceo: mi alzai dal banco durante una lezione di matematica e, senza nessun preavviso, dissi ad alta voce: ‘Ma chi sono io?’. Una cosa improvvisa, ma potentissima. La professoressa, poverina, non sapeva come reagire. Io non stavo facendo una scenata, ero davvero in crisi. Una crisi esistenziale vera, profonda, quasi fisica. Avevo 14 anni. È stato il primo vero momento in cui ho sentito che qualcosa non tornava, che dovevo farmi delle domande. E col tempo ho capito anche che ‘chi sono?’ non è la domanda giusta. È una domanda che può diventare una trappola. Perché rischia di normalizzare. Di cristallizzarti in un’idea comoda, statica. ‘Sono fatto così’ è la scusa perfetta per non cambiare mai. Invece io oggi credo che la domanda più onesta, più utile, sia: “Chi voglio essere?”.

Hai usato prima la parola “casa”. Cosa significa per te?

“Casa è mia moglie. Semplicemente. Non c’è bisogno di tante parole: la bellezza sta nelle piccole cose”.

francesco-montanari Fonte foto: US: Lorella Di Carlo
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