Romana Maggiora Vergano sul cinema al femminile e la violenza sulle donne, da "C'è ancora domani" ai David
Dopo il boom di C’è ancora domani, Romana Maggiora Vergano racconta cosa significa davvero essere donna oggi, tra scelte scomode, libertà negate e nuovi inizi
In un momento in cui il cinema italiano sembra finalmente voler ascoltare davvero le voci femminili, Romana Maggiora Vergano è una presenza che si impone senza clamore, ma con una forza costante, autentica, che non cerca scorciatoie. Ha il volto di chi potrebbe essere intrappolata in ruoli convenzionali, ma lo sguardo – preciso, inquieto, intelligente – di chi li scardina a uno a uno. In questa intervista, realizzata a Palermo durante l’On Air Festival, si racconta con lucidità e calore.
Negli ultimi anni c’è stata una trasformazione nel modo in cui il cinema racconta le donne: Romana Maggiora Vergano si senti parte di questo cambiamento con i ruoli che sceglie?
“Sì, assolutamente. Mi sento parte di un momento storico importante, quasi privilegiato. È come se il vento stesse soffiando nella direzione giusta, e io mi ci sono trovata dentro per una fortunata coincidenza generazionale. Oggi c’è una nuova attenzione, una nuova cura nel raccontare le donne, e in particolare quella fase ambigua e potente che è l’essere una giovane donna. Non sei più una ragazzina, ma non sei ancora una donna adulta nel senso tradizionale del termine. È un’età complessa, che spesso è stata trascurata o stereotipata. Attraverso i personaggi che interpreto, ho la possibilità di attraversare questa fase da punti di vista sempre diversi, e questo è un regalo enorme. Ogni ruolo è una lente che mi permette di guardare dentro esperienze che magari io, come Romana, non avrei mai vissuto o scelto consapevolmente. Invece il lavoro me le mette davanti e mi chiede di capirle, di sentirle, di viverle. È uno dei grandi poteri della recitazione: ti fa crescere, ti trasforma, ti allarga dentro”.
E com’è il tuo rapporto con le registe? Hai lavorato con donne affermate e con giovani promesse. Cosa cambia quando a dirigere è una donna?
“Forse può sembrare assurdo, ma per me essere diretta da una donna è quasi la normalità. Ho iniziato da poco e mi è capitato più spesso di lavorare con registe che con registi. Mi auguro che presto questa non sia più un’eccezione ma la norma per tutti. Detto ciò, non credo che la differenza stia tanto nel genere, quanto nella sensibilità individuale. Ci sono registi uomini che hanno un’empatia e una delicatezza nell’approccio che spesso si associa allo sguardo femminile. Quello che fa la differenza, davvero, è quanto un regista – uomo o donna – sia aperto, disponibile, capace di ascoltare e di creare uno spazio sicuro per te sul set. Quando ti senti accolta, compresa, quando senti che puoi rischiare, sbagliare, proporre, allora il lavoro diventa profondo e autentico. E poi c’è anche un aspetto politico: finalmente le donne possono raccontare, dirigere, guidare. Come ha detto Maria Sole Tognazzi, le storie le abbiamo sempre avute, solo che ora ci lasciano raccontarle. Questo momento va protetto, spinto, cavalcato. È l’inizio di qualcosa che spero diventi strutturale, non solo una fase”.
Se ripensi alla ragazza che muoveva i primi passi nel cinema: cosa ha confermato le aspettative di Romana Maggiora Vergano e cosa le ha deluse?
“Da ragazzina avevo l’intuizione fortissima che questo mestiere sarebbe stato il mio. Non perché non potessi fare altro – forse avrei potuto, sono una persona determinata – ma perché nulla mi dava quella vibrazione profonda che mi dà la recitazione. E questo è stato pienamente confermato. Ogni volta che sono su un set, ogni volta che preparo un ruolo, sento di essere esattamente dove dovrei essere. Non c’è un’altra versione di me in un altro mestiere che mi sembra più giusta. Quello che invece non avevo previsto è il peso delle aspettative. Pensavo: ‘Quando ce la farò, quando sarò riconosciuta, potrò rilassarmi’. E invece no. Ogni traguardo porta con sé nuove pressioni. Devi confermare, devi scegliere bene, non puoi più permetterti leggerezze. C’è sempre un nuovo livello da raggiungere, e spesso sei tu stessa a essere il tuo giudice più severo. È faticoso, e lo sto ancora imparando a gestire”.
La candidatura ai David di Donatello per due anni di fila ha aumentato queste pressioni?
“In realtà, la prima candidatura per C’è ancora domani l’ho vissuta con grande sorpresa. Non me l’aspettavo minimamente. È arrivata come un dono, un segnale dall’universo che mi diceva: “Stai andando nella direzione giusta”. È stata una carezza all’autostima. Poi certo, quando succede una seconda volta, come è accaduto per Il tempo che ci vuole, è un po’ diverso. Inizi a chiederti: “Ora cosa si aspettano da me?” Ma resto fedele al pensiero per cui i premi non si meritano, si ricevono. Se arrivano, è bellissimo, sono una gioia. Ma se non arrivano, non cancellano il valore del tuo lavoro. La cosa davvero importante è che io sto lavorando. E oggi lavorare nel cinema italiano, farlo con continuità, è già una fortuna enorme. Nulla è scontato”.
US: 01 Distribution
Hai mai pensato di passare dietro la macchina da presa, come regista?
“In questo momento direi di no. Sento che non è il mio tempo. Non mi sentirei pronta a gestire la responsabilità enorme che comporta dirigere un film. Un set è un mondo intero, e per ora preferisco viverlo da interprete. Mi piace essere guidata, entrare nell’universo di un altro. Mi sento ancora molto ‘figlia’, in questo senso. È quando vengo diretta con attenzione e rispetto che mi sento più libera creativamente. Detto questo, non escludo niente. Non mi piace chiudere porte in anticipo. Magari tra dieci anni ci incontreremo di nuovo e rideremo su questa risposta. Non voglio contraddirmi, quindi preferisco lasciarmi aperta la possibilità. Ma adesso, davvero, non ne sento l’urgenza. Non ho ancora qualcosa di così forte da dire che senta il bisogno di dirigere per esprimerlo. Quando e se succederà, forse sarà il momento giusto”.
Hai lavorato con grandi nomi e in progetti importanti. Come fa Romana Maggiora Vergano a scegliere? Come si impara a dire di no?
“È una delle cose più difficili. Ogni volta che dici di no, ti assale il dubbio: ‘E se mi sto perdendo l’occasione della vita, qualcosa di irrecuperabile?‘. La FOMO esiste anche nel nostro mestiere, eccome. E il rischio è quello di svuotarti, di accettare tutto per paura di perdere qualcosa, ma poi perdere te stessa nel processo. Io ho la fortuna di avere un team che mi protegge e che mi conosce molto bene. Con loro condivido tutto. Cerchiamo di capire insieme cosa ha senso, non solo per la carriera, ma anche per me come persona, come attrice. Sto imparando, con molta cautela, a dire qualche no. Anche per proteggermi, per preservare la mia creatività. Ho capito che ho bisogno di pause, di momenti di vuoto. Non solo per riposarmi, ma per tornare a riaccendere la creatività e per ricaricare l’amore verso questo mestiere. Ogni ‘no’ pesa. Ci penso per giorni, non ci dormo la notte. Ma cerco di fidarmi: se un’occasione non è per me, allora non deve essere. Forse, in fondo, è anche una forma di fatalismo”.
C’è un “no” che oggi ti senti di aver fatto bene a dire?
“Sì, anche se non è stato un no clamoroso, quanto una direzione che ho deciso di non prendere. Quando ho iniziato, avevo 18 anni e un volto molto pulito, molto ‘ordinato’, che tendeva a farmi rientrare in certi cliché. Con la mia agente ci siamo rese conto che avrei potuto essere scelta per ruoli troppo simili tra loro, troppo legati all’immagine, e troppo presto. Vengo da un’accademia, la Volonté, dove abbiamo sperimentato tanto, dove ho scoperto quante cose diverse posso raccontare. E io volevo continuare a esplorare, a rischiare. Ho rifiutato o evitato progetti che sentivo avrebbero potuto legarmi a un certo tipo di immagine troppo in fretta. Non è stato facile. Avevo paura che nessuno mi avrebbe più chiamato. Ma poi è arrivata Francesca Archibugi, che mi ha visto diversamente. Mi ha affidato nella serie La storia un ruolo che io stessa non avrei pensato possibile. È stata la dimostrazione che avevo fatto bene ad aspettare”.
Il tuo primo progetto internazionale è stato una serie prodotta da Roland Emmerich, Those About to Die, a luglio in onda su Canale 5. Che esperienza è stata? Hai respirato quell’aria un po’ hollywoodiana?
“L’atmosfera hollywoodiana, quella dei sogni, l’ho sentita più nella mia testa che sul set, a dire il vero. Prima di iniziare le riprese, l’idea di lavorare in una produzione internazionale mi sembrava quasi irreale, come se stessi toccando con mano qualcosa che avevo solo immaginato. Poi entri sul set… e scopri che le maestranze sono tutte italiane, che si respira quell’aria familiare, calda, tipica dei nostri set. Ti senti subito a casa. Quello che mi ha colpito, però, è stato il metodo di lavoro. I registi stranieri hanno un approccio molto diretto, quasi chirurgico. Sono concentratissimi, a volte non ti salutano nemmeno all’inizio della giornata, ma non per mancanza di rispetto: semplicemente sono focalizzati sull’obiettivo. Non c’è spazio per distrazioni. Tutto è scandito, calibrato. È un tipo di set che ti responsabilizza: sei accompagnata, ma devi anche cavartela da sola. Mi ha insegnato tanto, soprattutto a stare al mio posto con consapevolezza, a essere parte di un meccanismo più grande, con precisione. E poi girare a Cinecittà… è sempre un sogno. Puoi passare da un teatro spoglio all’antica Roma in dieci passi. È davvero una macchina dei sogni”.
US The Rumors
Sei molto riservata nella vita privata, ma posso chiederti: hai mai sofferto della sindrome dell’impostore? Ti sei mai detta “E io che ci faccio qui”?
“Sì, e non solo una volta. È qualcosa che torna ciclicamente. Ho avuto la fortuna di lavorare con persone come Francesca Comencini, che mi ha confessato di convivere con quella sensazione da sempre. E in quel momento mi sono sentita capita, meno sola. Questo lavoro ti chiede di portare te stessa, la tua intimità, le tue ferite, la tua emotività. E ogni tanto ti chiedi: ‘Ma non è che hanno preso un abbaglio? Non ho granché qui dentro: riesco a manipolarlo ma per quanto tempo ancora?’. Il confronto continuo con altri talenti, soprattutto quelli che ho conosciuto alla Volonté, la mia scuola, lo alimenta. Ho visto persone di un talento straordinario che non hanno avuto le stesse possibilità, e mi sono chiesta spesso: ‘Perché io sì e loro no?’. Questo dubbio non ti lascia mai del tutto e mi appesantisce spesso. Però ci sono anche le persone che ti vogliono bene, quelle che stimi, che ti guardano con rispetto e ti dicono: ‘Se sei qui, è perché te lo sei meritato’. E quelle parole contano tantissimo. Ti rimettono in asse. Ti ricordano che il tuo valore professionale non si misura solo con ciò che fai, ma anche con il modo in cui scegli di esserci”.
Il tempo che ci vuole, l’ultimo film di Francesca Comenicini, è stato accolto benissimo anche in Francia. Addirittura, meglio che in Italia. Che effetto ti ha fatto?
“Mi ha sinceramente stupita. Ero pronta al peggio. Prima di leggere le recensioni francesi mi dicevo: “Dai, Romana, non ti far del male, evita”. Perché, diciamolo, spesso la critica francese ha uno sguardo severo verso il cinema italiano, soprattutto nei confronti delle nostre ultime opere uscite lì. Invece mi sono ritrovata di fronte a parole eleganti, analitiche, ma rispettose. Anche quando erano più tecniche, più distaccate, c’era sempre una dignità, una gentilezza di fondo nel modo in cui parlavano del film e del lavoro di Francesca. Questo mi ha colpita profondamente. Sapevo che Luigi Comencini fosse molto amato in Francia, quindi un certo calore me lo aspettavo, ma non pensavo potesse arrivare anche alla mia interpretazione, a me come attrice. Mi ha fatto riflettere. Ho iniziato a pensare seriamente alla possibilità di lavorare lì, magari trovare un agente francese, seguire un corso di recitazione. Più che Hollywood, oggi mi ispira la Francia. La sento più vicina a un certo modo di intendere il mestiere, più in sintonia con la mia sensibilità. Chissà, magari è un segnale da cogliere”.
E non in Cina, dove è uscito con molto successo C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi in cui interpreti la figlia della protagonista, Marcella?
“Non potrei lavorare in Cina per paura dell’aereo! Quello che è accaduto lì è straordinario: è persino diventata virale l’immagine del mio personaggio. Su un sito di abiti, hanno persino riprodotto il suo vestito. Quando ho visto quella foto di un manichino cinese con quel modello… sono rimasta senza parole: è surreale e incredibile allo stesso tempo. La cosa bella è che lì, in Cina, nessuno sa chi io sia, non c’è un attaccamento personale a Romana attrice. Eppure, quel personaggio è arrivato lo stesso, è stato riconosciuto, trasformato in simbolo. Questo per me è stato profondamente toccante. Significa che il messaggio ha funzionato, che qualcosa ha colpito nel segno, al di là della fama o del volto. È il potere del cinema quando riesce a parlare un linguaggio universale”.
US: Vision Distribution
Viviamo un periodo in cui ogni giorno leggiamo notizie di femminicidi. Come donna, pensi che saresti in grado di riconoscere un amore tossico?
“Mi viene subito in mente Marcella, il personaggio che ho interpretato in C’è ancora domani. Lei era lucida nel vedere la violenza nella vita della madre, cercava di scuoterla, di farla reagire. Ma non si rendeva conto che stava vivendo una dinamica simile. È emblematico, secondo me. Anche le donne più consapevoli, più sensibili, più istruite possono non riconoscere certi segnali quando li vivono sulla propria pelle. Perché ci sono meccanismi affettivi, culturali, che scattano in modo profondo e spesso silenzioso che non riusciamo a scardinare. Siamo educate a sopportare, a giustificare, a minimizzare. E quando ti rendi conto che qualcosa non va, sei già dentro. Credo che oggi ci siano più strumenti, più parole, ma la radice del problema è culturale. Va estirpata alla base. Quindi sì, forse riuscirei a riconoscere le red flags. Ma non sono sicura di riuscire a evitarle”.
I tuoi genitori sono dei professionisti in un altro ambito, lontano dai riflettori. Hanno fatto pace con la tua scelta di fare l’attrice?
“Sì, abbiamo fatto pace. Ma non nel senso che me lo hanno ‘concesso’ o che lo hanno semplicemente accettato. L’ho capito solo di recente, ma non cercavano un riscatto attraverso i miei risultati. Non stavano aspettando un David per sentirsi orgogliosi. A loro interessa solo una cosa: che io stia bene. Quando li chiamo e racconto delle cose che faccio, delle emozioni sul set, delle nuove esperienze, loro mi ascoltano. Ma poi arriva sempre la domanda più semplice e più bella: ‘Ma tu sei felice?’. Ecco, quella è la loro misura”.
E allora la domanda finale è inevitabile: Romana, sei felice?
“Sì. In questo momento della mia vita, lo sono. Molto”.
