Sofia D'Elia al cinema con Tre Ciotole, l'intervista all'attrice: "Io, Michela Murgia e il silenzio che urla"

Nel film Tre ciotole di Isabel Coixet, tratto dal romanzo di Michela Murgia, Sofia D’Elia interpreta un personaggio che parla attraverso gli occhi e il dolore: l'intervista

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A pochi giorni dall’uscita di Tre ciotole, adattamento cinematografico firmato da Isabel Coixet e ispirato all’opera di Michela Murgia al cinema da giovedì 9 ottobre, Sofia D’Elia ci accompagna dentro il suo percorso artistico ed emotivo, che è anche una presa di posizione umana. Lontana dai riflettori social, vicina al silenzio che rivela. Dentro Giulia, il suo personaggio, la giovane attrice ha trovato parti di sé che non sapeva di avere: fragilità, sì, ma soprattutto forza. E una fame d’amore che oggi, in una generazione spesso anestetizzata, suona come un atto di resistenza.

Chi è Giulia per lei, Sofia? Al di là della trama e del romanzo, qual è la prima immagine che l’ha colpita di lei?

“Mi dispiace non poter raccontare una cosa che per me sarebbe davvero una chiave nel descrivere Giulia, ma purtroppo non posso ancora svelarla. Ci tengo molto, ma non posso. Posso dire però che una delle cose che più mi ha colpito di Giulia è il modo in cui parla attraverso il silenzio. Noi oggi facciamo fatica a dare valore al silenzio. Pensiamo che sia una forma di indifferenza, di omertà. Invece no. Il silenzio è un rumore, non è solo assenza di suono, è un modo di comunicare. C’è chi parla con le parole e chi parla con gli occhi, e Giulia appartiene a quest’ultimo gruppo. Sceglie di non parlare, ma di trasmettere ciò che prova con lo sguardo, con la presenza. Ed è stato fondamentale, nel lavoro attoriale, capire come rendere quel silenzio, come usarlo per emozionare. Giulia vive un disagio, questo posso dirlo, e recitare quel disagio senza parole è stato molto più complesso. Interpretare un personaggio scritto da Michela Murgia significa farsi attraversare dalle emozioni e accoglierle, non giudicarle”.

Ha letto il romanzo di Michela Murgia prima di girare? Si confrontata con persone della sua età per capire meglio quel disagio?

“Appena ho saputo del provino, ho letto subito il libro. Ci tengo a raccontarti questa cosa, perché non l’ho mai detta a nessuno. Quando ho scoperto di essere stata scelta, ero a casa di mia sorella, era arrivata mia madre, che voleva farmi uno scherzo: mi disse ‘Sofi, ti devo dire una cosa’ e io ho pensato subito fosse una brutta notizia. Invece mi ha detto che ero stata presa. Sono scoppiata a piangere. Interpretare un personaggio tratto da un libro di Michela Murgia, che io stimo moltissimo, è stato magnifico. Ho letto sia il romanzo che la sceneggiatura, perché è importante capire anche il punto di vista degli altri personaggi. La figura di Alvaro, ad esempio, è cruciale per comprendere Giulia. Quella coesione tra i personaggi mi ha fatto capire il valore profondo del lavoro della Murgia: la lealtà, l’umanità, la sensibilità verso il dolore”.

C’è stato un momento sul set in cui ha sentito che Giulia non era più solo un personaggio scritto da Murgia o Coixet, ma era diventata la sua Giulia?

“Sì, e solo a parlarne mi emoziono. Io ho sempre avuto paura di dire troppo. Ho paura di disturbare, di essere invadente. Anche Giulia è così. Quindi ci siamo trovate, anche se siamo molto diverse. Ma in quel tratto, nella scelta del silenzio come forma di rispetto e riflessione, ci siamo riconosciute. Ho sempre interpretato personaggi molto diversi da me, ma Giulia mi ha fatto scoprire che in fondo il mio modo di vivere la riflessione, di pensare tanto prima di parlare, è un elemento che condivido con lei. La riflessione è un modo di vivere”.

Avete sentito la pressione sul set, sapendo che questa era la prima trasposizione di Murgia dopo la sua morte?

“Assolutamente sì. Dire di no sarebbe ipocrita. L’ansia da prestazione era fortissima, non solo perché stavamo lavorando su un testo importante, ma anche perché era il primo adattamento dopo la sua scomparsa. E poi per la presenza di attrici come Alba Rohrwacher o attori come Elio Germano. Senti che devi restituire tutto ciò che il libro trasmette con le parole anche nella tua interpretazione. Devi emozionarti, perché solo così puoi far emozionare chi guarda”.

sofia d'elia attriceJacopo Gentilini

Com’è stato lavorare con tre generazioni di donne: Isabel Coixet, Alba Rohrwacher e lei?

“Un’esperienza incredibile. Isabel mi ha detto una cosa che non dimenticherò mai: ‘La sceneggiatura non è la Bibbia. Il personaggio va vissuto, non interpretato’. Viene da una generazione in cui l’espressione non era così libera. Quindi, nel suo modo di dirigere, si sentiva quella forza di chi si è ripresa la libertà di parola. Alba, invece, è un riferimento per me. Quando ho fatto la prima lettura ero emozionatissima. Avevo appena finito di vedere L’amica geniale, ed era un sogno essere lì. Alba è stata da subito un’insegnante. Vederla lavorare, ricevere i suoi consigli, è stato magico”.

Come riusciva a scrollarsi Giulia di dosso la sera, dopo una giornata di riprese emotivamente forti?

“In realtà non riuscivo. Quando ami questo lavoro e lo vivi con passione, ti porti dentro il personaggio anche a fine giornata. Non pensavo a come era venuta la scena, ma a quanto fosse vera. Mi chiedevo: ‘Tu, Sofia, avresti fatto lo stesso?’ Era un continuo mettermi in discussione. Ricordo che dopo una scena molto intensa, l’ultima del film, sono stata male. Mi sono chiesta se io avrei avuto il coraggio di Giulia. Interpretare certi ruoli ti cambia, ti fa scoprire lati di te che non conoscevi”.

Ne ha scoperto qualcuno in particolare?

“Credevo di essere fragile. Invece ho scoperto di essere coraggiosa. Il coraggio di affrontare certe scene, certe emozioni, non lo davo per scontato. Ho capito che per restituire verità al personaggio devi prima sentirla tu quell’emozione”.

Che messaggio pensa possa trasmettere Tre ciotole ai suoi coetanei?

“Un messaggio fondamentale. Purtroppo, oggi la mia generazione ha perso il senso di certi valori. Io mi sento più a mio agio con persone più grandi, perché vedo una grande dispersione nei miei coetanei. Michela Murgia usava il cibo come metafora di cura, amore, resistenza. Tre ciotole può aiutarci a riscoprire la purezza. E se l’emozione arriva attraverso la purezza, allora il film ha vinto”.

Se si trovasse davanti a qualcuno che si riconosce in Giulia, cosa gli o le direbbe?

“Direi che a volte la vita sembra difficile come la collina dell’infinito di Leopardi: cammini e cammini ma non vedi mai il paesaggio. Invece, proprio come fa Giulia, bisogna continuare a camminare con la speranza che quel paesaggio esista. E poi alla fine lo vedi, e capisci che la vita è un dono”.

Tre ciotole arriva dopo Folle d’amore, in cui interpretava una giovane Alda Merini. Ha mai avuto paura di essere etichettata solo come l’attrice dei ruoli ‘intensi’?

“Sì, un po’. Ma allo stesso tempo mi sento molto vicina a questi personaggi. Ho sempre interpretato ruoli emotivamente complessi, e forse perché il dolore è l’unica emozione che davvero sappiamo comprendere. La felicità, la serenità sono astratte. Il dolore no. Il dolore è una stanza che conosciamo tutti. E attraverso questi ruoli io ho imparato tanto, anche su me stessa. Mi piacerebbe provare ruoli diversi, certo, ma il dramma è una scuola incredibile”.

Cos’è che la emoziona nella vita di tutti i giorni?

“Una cosa semplicissima: svegliarmi e vedere il sole entrare dalla finestra. Abito da sola a Roma, e quando vedo la luce del sole nella mia stanza mi emoziono. Mi dico: ‘Va bene, oggi è un bel giorno’”.

E cos’è che le fa male?

“La paura di non essere felice. Mi fa male pensare di arrivare a fine giornata e non poter dire di aver provato gioia. La ricerca della felicità è qualcosa che sento profondamente, ed è dolorosa. Ho paura di perdere la bussola. La felicità è un diamante minuscolo, e ho paura che mi cada dalle mani”.

Da quanto vive a Roma da sola? Com’è stato il primo impatto?

“Mi sono trasferita ad agosto. La prima cosa che ho pensato è stata: ‘Ora puoi iniziare’. Vivere da sola ti costringe ad ascoltarti. Ho capito molto meglio chi sono, cosa voglio, i miei obiettivi. Mi manca tanto la mia famiglia, mio padre Gerardo, mia madre Sabrina, i miei fratelli Giulio e Pierfrancesco, mia nonna Sabina. Ma ogni giorno rivolgo loro un pensiero”.

Si è sentita ‘grande’?

“No. E ti dico la verità: non mi sento della mia età. Da sempre. Quando avevo 14 anni, ne sentivo 50. Ora ne ho 80, almeno dentro. Ho sempre avuto pensieri proiettati verso il futuro. Questo mi ha tolto qualcosa: non ho mai vissuto l’adolescenza. Non ho mai provato quella spensieratezza. E mi dispiace. Ma ho troppi sogni, troppi obiettivi, e questo mi fa vivere tutto con grande serietà”.

Ha citato sua nonna: qual è il più grande insegnamento che le ha dato?

“Mia nonna Sabina è una luce. A 84 anni ha sconfitto un tumore. Ha avuto tantissimi problemi di salute, ma dava forza agli altri. Quando le ho chiesto come fa a sorridere sempre, mi ha detto: ‘Il segreto è non pensare troppo’. Quella frase per me è stata una rivelazione. Aspiro a diventare come lei”.

Se oggi dovesse rifare la sua carta d’identità, direbbe “sono un’attrice” o “faccio l’attrice”?

“Direi: ‘Vivo per recitare’”.

Non ha paura che questo lavoro le faccia male?

“Sì, ho avuto tante ferite. Ho iniziato da piccola, a 7-8 anni, e ho ricevuto molti no. Ma poi sono arrivati i primi sì, e ho capito che la virtù dei forti è la resilienza. La passione che provo per questo lavoro è più forte della paura. L’unica vera paura che ho è perdere questa passione”.

È una delle poche giovani attrici a non puntare tutto sull’immagine. Quanto pesa questa scelta nei casting?

“Grazie per averlo notato. Per me conta di più far emergere ciò che c’è dentro. L’apparenza va bene, ma non deve essere tutto. Kant diceva che ciò che c’è dentro di noi è un bagaglio chiuso. Più cose belle escono da quel bagaglio, più siamo meravigliosi. Preferisco far parlare la sostanza”.

Il silenzio, dicevamo: oggi a chi darebbe voce?

“A chi ha paura di esprimersi, a chi cammina con lo sguardo basso, a chi si sente sbagliato. Questo lavoro è meraviglioso perché ti permette di dare voce a chi non ne ha. E questa, per me, è una missione etica”.

Tre ciotole parla di fame d’amore. Come placa la sua?

“Ho una fame d’amore che non si placa. Ho fame di un amore tradizionale, che oggi sembra non esistere più. Oggi si vive di relazioni senza impegno, situationship, intimità condivisa senza finalità. Io credo ancora nell’amore vero, quello che costruisce. Oggi la mia fame d’amore la plago investendo su me stessa, con la speranza di costruire un giorno una famiglia, di diventare mamma. Perché insegnare e imparare sono due valori che amo profondamente”.

Cosa ha imparato dall’arte?

“Che non si studia per prendere 10, ma per diventare persone. La cultura umanistica mi ha fatto capire il valore dell’amore vero. Montale, ad esempio, mi ha insegnato molto più di mille consigli moderni. Studiare arte, letteratura, filosofia, ti rende umano. Prima che professionista”.

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