Aurora Ruffino, chi è la donna dietro l'attrice che ha trovato se stessa: “Non ho mai voluto essere famosa”
Dal successo alla crescita, dalle fiction alla filosofia: un'intervista sincera di Aurora Ruffino, che parla di sé oltre etichette e successo
Aurora Ruffino non è un’interprete qualsiasi. La sua carriera – iniziata da giovanissima con ruoli intensi, popolari, spesso identificativi – non ha mai sovrastato la sua identità più profonda: quella di una donna in costante ricerca, capace di mettere in discussione se stessa e il senso intrinseco del proprio mestiere. Per lei, recitare non è mai stato solo un atto performativo, ma una forma di catarsi, uno strumento per svuotarsi, per liberare spazi interiori e trasformarli in domande, in silenzi, in consapevolezza. Nel corso degli anni, Aurora Ruffino ha attraversato il successo, la popolarità, le aspettative del pubblico e dell’industria. Ma non si è mai fatta imprigionare da etichette. Anzi. Più il sistema cercava di definirla, più lei sceglieva la libertà. Libertà di prendere le distanze, di non rincorrere il clamore, di preferire l’onestà alla costruzione di un personaggio. L’intervista in esclusiva a Virgilio Notizie, che precede il suo ritorno al Giffoni Film Festival.
Dopo tanti anni, che sensazioni le dà il ritorno al Giffoni Film Festival? Cosa dirà ai ragazzi?
“È vero, è passato tanto tempo. Se non sbaglio, l’ultima volta che sono stata ospite era il 2016. Quasi dieci anni fa. Giffoni però resta un luogo speciale, unico. Forse anche perché non è mai stato per me solo un evento di cinema, ma un momento in cui ti trovi faccia a faccia con i giovani. Confrontarti con i loro occhi, con le loro domande, è sempre qualcosa che ti riporta a te stessa. Non mi preparo mai a questi incontri. Non scrivo discorsi, non penso a cosa dire. Preferisco lasciare che tutto emerga sul momento. Mi interessa parlare con sincerità, condividere la mia esperienza senza alcuna pretesa di insegnamento. Non mi sento a mio agio nel ruolo di chi dà lezioni, specialmente quando so che nella mia vita non ho risposte assolute da offrire. Quello che posso fare è raccontare la mia strada, i miei dubbi, le mie cadute e le mie scoperte. Se questo può servire a qualcuno, bene. Altrimenti resterà comunque un incontro vero”.
Ha iniziato la sua carriera di attrice da giovanissima. Oggi, con più di quindici anni di esperienza, c’è un ruolo che l’ha trasformata più degli altri?
“Il mio rapporto con la recitazione è molto particolare. Non è stato mai il personaggio a farmi crescere, ma il processo che ci sta dietro. I ruoli per me sono stati un mezzo per “svuotarmi”, per tirare fuori tutto ciò che avevo dentro, e non riuscivo a esprimere in altri modi. Quando interpreti un personaggio come Maria José in La lunga notte ovviamente studi, ti documenti, conosci storie di donne straordinarie. E quello ti apre degli orizzonti. Ma la mia crescita personale è avvenuta altrove. È arrivata nel momento in cui, proprio grazie al fatto di svuotarmi attraverso la recitazione, ho iniziato a fare spazio dentro di me. Uno spazio che mi ha portata a pormi le grandi domande: “Chi siamo? Perché viviamo tutto questo? Che senso ha davvero?”. È lì che ho iniziato una ricerca spirituale e filosofica molto profonda. Una ricerca che mi ha insegnato a distinguere il mio valore da ciò che faccio. Perché io non sono l’attrice, né il corpo in cui vivo, né la storia da cui provengo. Tutto questo è forma. Ma sotto quella forma c’è l’essenza, e quella sì, quella è la cosa più vera. Una volta che la tocchi, che la riconosci in te, inizi a vederla anche negli altri. Negli animali. Nella natura. In ogni cosa. Perfino negli oggetti inanimati”.
“Svuotarsi” come effetto della recitazione. C’è stata una valigia emotiva che è stato più difficile svuotare? Un peso che si è portata dietro per anni prima di riuscire a lasciarlo andare?
“È una domanda molto bella, e difficile. Perché in realtà non c’è una sola valigia. Ce ne sono tante, e ogni volta che pensi di aver svuotato tutto, scopri che sotto c’è ancora qualcosa. È un processo a strati, come una cipolla. Ti togli un’identità, poi un’altra, poi ancora. E ogni volta vai un po’ più in profondità. Non ho mai fatto un calcolo su quale fosse il peso più grande, perché per me il punto non è “quanto pesa”, ma “quanto devo ancora tirare fuori?”. In questi quindici anni di lavoro, e nella mia vita personale, ho capito che all’inizio c’era un’urgenza. Un’urgenza fortissima di vomitare fuori tutta un’emotività repressa. Era come se ogni personaggio mi servisse per liberarmi. Ora invece, da qualche tempo, quello spazio si è svuotato. E da lì, le emozioni che affiorano non arrivano più da un bisogno disperato di espellere qualcosa, ma da una libertà. È come se adesso fiorissero da sole. Non c’è più dolore, non c’è più trattenimento. È un’esperienza nuova, e diversa. Molto più dolce”.
Durante questo percorso, Aurora Ruffino ha avuto degli “aiutanti”? O magari degli antagonisti che l’hanno spinta a fare un salto in avanti?
“Sì, e ti dirò: gli antagonisti sono stati i miei veri aiutanti. I più preziosi. Le persone che sembrano “negative”, difficili, dolorose da affrontare… quelle sono i tuoi veri maestri, se sei disposto a guardare. Ogni conflitto, ogni relazione che ti mette in crisi, se la vivi con apertura e non con la volontà di avere ragione, ti scava dentro. Ti mostra dove hai delle ferite, dove sei fragile, dove hai ancora bisogno di guarigione. Ed è lì che cresci. Ma bisogna volerlo. Perché è molto più facile dire: “Quella persona mi ha fatto del male”, “Io sono la vittima”. Fermarsi alla superficie. Invece andare sotto, chiederti perché ti fa male, cosa tocca in te quella persona… quello è un atto di coraggio. È un percorso. E non tutti vogliono farlo”.
In tale percorso, i sentimenti – amore, rabbia, rancore – sono un ostacolo o una risorsa? Rallentano o aiutano la tua crescita?
“I sentimenti sono parte integrante dell’esperienza umana. Sono fondamentali. Anche quelli che giudichiamo “negativi”. C’è stato un periodo, non troppo tempo fa, in cui si pensava che per evolvere bisognasse negare tutto ciò che è umano: il desiderio, il piacere, perfino il cibo. Alcuni si privavano di tutto nel tentativo di elevarsi spiritualmente. Ma io credo che quella sia una fuga, non un’evoluzione. Noi siamo carne e spirito. Siamo materia e coscienza. E se siamo venuti su questa Terra in un corpo, c’è un motivo. Rifiutare l’esperienza sensoriale, emozionale, relazionale è una forma di violenza contro sé stessi. Per me la chiave è l’unione. Non la separazione. Non è “o l’uno o l’altro”, ma “entrambi”. E la qualità dell’esperienza cambia quando smetti di giudicare. Quindi sì, anche il dolore, anche la rabbia, anche la perdita: tutto fa parte del viaggio. Tutto va vissuto. E tutto può insegnarti qualcosa”.
Il dolore: che significato ha per lei oggi?
“Il dolore è una porta. È il passaggio che ti costringe ad andare dentro. Senza il dolore, resteremmo in superficie. È come scavare il fondo di una vaschetta di gelato con il cucchiaio: il dolore ti scava, ti spinge a guardarti, ad ascoltarti, a farti domande. È il dolore che ti fa iniziare il viaggio. Senza, non ci sarebbe introspezione, trasformazione, vita vera. Sarebbe solo una cartolina felice. Non ci sarebbe la morte, la rinascita, il senso profondo dell’esistere. E quindi sì, per me il dolore è fondamentale. È un alleato scomodo, ma necessario”.
Quando ha realizzato che piangersi addosso non serviva a nulla?
“Quando ti trovi a non poter più contare su niente: né sul lavoro, né sul corpo, né sulla famiglia, né su ciò che avevi desiderato. Quando crollano tutte le tue certezze e resti senza appigli, l’unica identità rimasta è quella della vittima. E quella è la tentazione più grande. È facile restare lì, raccontarsi che tutto è contro di te, che la vita è ingiusta. Ma è una trappola. E a un certo punto io ho capito che dovevo smettere di raccontarmela. Leggere il Libro rosso di Jung a trent’anni mi ha cambiata. Dice che ogni essere umano ha diritto di scegliere anche la propria autodistruzione. E questo mi ha fatto capire che nessuno può salvare un altro. Nemmeno se ami quella persona. Ognuno ha il suo cammino”.
Chi sono stati i suoi riferimenti, le persone che l’hanno influenzato di più fino ai trent’anni?
“Sicuramente la mia famiglia, anche se ho sempre avuto un senso di indipendenza molto forte. Non ho mai accettato le idee degli altri come verità assolute. Ho sempre voluto ragionare con la mia testa, anche sbagliando. La mia è una famiglia complicata, con dinamiche non semplici. Non ho mai avuto quella figura genitoriale che ti segue passo passo. Sono cresciuta un po’ da sola, libera. E questa libertà, l’ho capito col tempo, è stato il dono più grande. Infatti, lo dico spesso: credo che uno dei regali più importanti che un genitore possa fare a un figlio sia lasciarlo libero presto. Libero di sbagliare, di farsi male, di trovare soluzioni. Di diventare autonomo”.
Ha appena concluso le riprese di una serie girata all’estero, Von Fock. Un’esperienza totalmente fuori dai suoi riferimenti. Che impatto ha avuto su di lei?
“Pazzesco. Mi hanno proposto una serie in Estonia e ho detto sì senza sapere neanche dove fosse esattamente. Ho cercato su Google, mi sono informata. Era tutto nuovo: la lingua, la gente, il clima, la produzione. Ho recitato in inglese mentre tutti gli altri parlavano estone. Non capivo nulla di ciò che dicevano. Eppure, è stata una delle esperienze più intense della mia vita. Amo buttarmi. Amo le sfide, ciò che è diverso, che mi costringe a rimettermi in gioco. Più una cosa è folle, più mi attira. Perché è lì che scopri chi sei. Come reagisci, cosa tiri fuori in condizioni completamente lontane da quelle abituali. Non so se la serie andrà in onda in Italia, ma per me è già stato un successo personale”.
Ha conosciuto la popolarità molto giovane grazie alla serie Braccialetti rossi, in un’epoca pre-social. Come si è salvata dalle illusioni del successo?
“Perché non me n’è mai fregato niente. Non ho mai voluto diventare famosa. Non ho mai avuto quel tipo di ambizione. Ho iniziato a recitare perché volevo scappare da Torino, perché cercavo un’occasione per guardarmi dentro e cominciare a guadagnare qualcosa. Non ho mai pensato “voglio essere una star”. La popolarità è arrivata, ma non è mai stata un obiettivo. Esco di casa in tuta, senza trucco, vivo come voglio. E questo mi ha salvata”.
Ha fatto tanta televisione, poco cinema. È una cosa che l’ha fatta soffrire?
“All’inizio sì. Me lo sono chiesta. “Perché non mi chiamano per il cinema?”. Avevo un po’ di preoccupazione, ma era legata all’identificazione. Quando ti identifichi col lavoro che fai, soffri se non corrisponde alle aspettative. Poi è cambiato tutto. Ora non mi definisco più per quello che faccio. Il mio valore non cambia se recito in una fiction o in un film di Spielberg. Per me non fa più differenza. Se fai un lavoro artistico, devi smettere di rincorrere il riconoscimento esterno. Devi essere fedele a te stesso. Al tuo essere”.
C’è mai stato un lavoro di cui si è pentita?
“No. Ogni lavoro mi ha portato dove sono. Anche quelli accettati solo per soldi, perché avevo bisogno. Non ho mai fatto scelte fingendo altro. Se ho lavorato per guadagnare, l’ho fatto consapevolmente. È più importante la verità: alcuni progetti mi hanno entusiasmato, altri meno… ma c’era sempre una ragione per farli: la voglia di creare”.
Ha scritto un romanzo, Volevo salvare i colori, e ha voglia di creare: ha in serbo altro?
“Sì. Ho scritto una sceneggiatura di un film con cui sto partecipando a un concorso in Inghilterra. Poi ho scritto anche un cortometraggio che mi piacerebbe dirigere. Racconta una tematica importante, ma non facile da proporre in Italia. Non è uno di quei temi “di moda” o già digeriti dal pubblico. Per questo voglio poterlo realizzare anche indipendentemente, se non trovo fondi. Voglio avere la libertà di creare. Di dire qualcosa di mio. E lo sto facendo adesso, in questo tempo in cui la vita mi sta togliendo il superfluo. Anche persone che pensavo importanti, ma che in fondo mi stavano distorcendo”.
Cosa sono per lei oggi il passato, il presente e il futuro?
“È cambiato tutto per me. Una volta pensavo al passato come a un bagaglio, qualcosa da analizzare, da sistemare. Oggi è come se non esistesse più. Non lo rimuovo: l’ho integrato. L’ho attraversato. Ora non ha più potere su di me. Il presente è l’unico tempo reale. È l’espressione di quello che sono. È dove si manifesta il mio desiderio, il mio intento, la mia essenza. E il futuro… beh, ho desideri, certo. Ma non li vivo più con attaccamento. Sto leggendo Pensieri di Marco Aurelio, e lui diceva: “Fai del tuo meglio perché le cose vadano come speri, ma poi accetta che vadano come devono”. Ecco, io ora penso così. Amor fati, amare il proprio destino. È la mia nuova forma di fiducia”.