Sabrina Knaflitz in scena col figlio Leo Gassmann e la fuga dall'etichetta di "moglie di"
L'intervista all'attrice Sabrina Knaflitz, dalla fuga dall'etichetta di essere "la moglie di Alessandro Gassmann" al rapporto col figlio Leo
Torna a teatro una delle interpreti più intense e riservate del panorama italiano, Sabrina Knaflitz, moglie di Alessandro Gassmann e madre del cantautore e attore Leo, con cui dividerà per la prima volta il palcoscenico. Il 29 luglio debutta al Festival teatrale di Borgio Verezzi (per poi riprendere in autunno) con Ubi Maior, una commedia agrodolce scritta da Franco Bertini, diretta da Enrico Lamanna, prodotta da I Due della Città del Sole, con un cast d’eccezione completato da Matteo Taranto e Barbara Begala. L’intervista esclusiva concessa da Sabrina Knaflitz a Virgilio Notizie durante le prove.
Il suo esordio è legato a maestri visionari come Memè Perlini e mostri sacri come suo suocero Vittorio Gassmann. Che cosa le hanno lasciato?
“Mi hanno lasciato l’essenza stessa del mestiere: la disciplina, il rigore, la fatica e la sacralità del teatro. Memè Perlini per me è stato un incontro folgorante. Ricordo ancora le prove d’estate in quel piccolo teatro vicino al Colosseo, in un caldo soffocante, e la sensazione di entrare in una dimensione altra. Il buio, i velluti, il silenzio. Avevo vent’anni, ero una ragazzina. Eppure, lì mi sono sentita subito a casa. Protetta. Il teatro era ed è rimasto una bolla sospesa fuori dal tempo, in cui ti è concesso essere chi sei davvero, o chi non sei affatto. Vittorio Gassmann, invece, mi ha insegnato la concentrazione feroce, il rispetto per il palco, la necessità dell’ascolto. E oggi che tutto è veloce, impulsivo, digitale, il teatro rimane un luogo di presenza. L’unico, forse”.
Che cosa significa per lei oggi “ascoltare” a teatro?
“Significa esistere nel presente. Oggi siamo sempre altrove. Anche mentre parliamo, spesso leggiamo un messaggio, rispondiamo a una notifica, ci distraiamo. A teatro no. A teatro sei lì, e solo lì. Non puoi scappare, non puoi fingere. L’ascolto scenico è anche un esercizio umano: devi sentire l’altro attore per rispondere, ma anche per capirlo. E questo esercizio, che sembra tecnico, è in realtà profondamente spirituale. Il teatro è uno degli ultimi luoghi dove non vieni interrotto, dove non devi spiegarti al mondo attraverso un post. E anche come pubblico, vieni invitato a spegnere tutto e ad accendere solo l’attenzione. È una forma di resistenza, oggi”.
Ubi Maior: cosa l’ha colpita del testo?
“È una commedia di situazione, ironica e pungente, che scava nei legami familiari senza moralismi. C’è un padre, una madre, un figlio, un’amica: quattro personaggi che si muovono in una quotidianità apparentemente risolta, ma in realtà fatta di maschere e compromessi. Nessuno è chi sembra. Il testo di Franco Bertini è dissacrante, profondo, a tratti esplosivo. E poi ha un grande pregio: non ti dice cosa pensare, ma ti costringe a guardarti dentro. Quando l’ho letto per la prima volta, ho pensato: Questa sono io. Ma anche no. E anche sì. È un testo che ti smonta e ti ricostruisce”.
E Lorena, il suo personaggio? Chi è?
“Lorena è una donna che ha fatto tutto giusto: è una madre premurosa, una moglie presente, una volontaria instancabile. Suo figlio è diventato un campione olimpico. Il matrimonio sembra stabile. Eppure, qualcosa dentro di lei si rompe. C’è una frattura, un bisogno di liberazione. Lorena vive una crisi silenziosa, profonda. Il suo dilemma è quello di tante donne: continuare a interpretare il ruolo della donna ideale o iniziare a essere se stessa, anche se questo significa rompere degli equilibri e andare oltre le etichette decise da altri? Per me interpretarla è stato come entrare in una stanza segreta, dove ognuna di noi custodisce una parte che non ha mai avuto il coraggio di raccontare”.
Sabrina Knaflitz è moglie di Alessandro Gassmann e madre di Leo. Si è mai sentita “incasellata” nella definizione di “moglie di” o “madre di”? Le pesa?
“No. E ti dico di più: se anche per un istante ho sentito quella sensazione, l’ho scacciata subito. Non la lascio entrare. La trovo una trappola banale, un’idea limitante. Ciascuno di noi è molto più del ruolo che ricopre o della persona che ha accanto. Non sei una funzione. Non sei una proiezione degli altri. Sei una persona, e questo basta. Viviamo in una società che ha un gran bisogno di etichettare tutto: sei madre, sei moglie, sei attrice, sei famosa, sei etero, sei lesbica, sei figlio unico… Ognuno viene subito infilato in una casella. Io ho sempre rifiutato questa logica. Non è solo una questione personale. È qualcosa di molto più grande. Anche la libertà sessuale, per esempio, che sembrava un diritto acquisito, oggi vedo che torna a essere messa in discussione. Come se la società stesse regredendo. Vedo ancora troppa paura verso chi non rientra negli schemi. E invece siamo tutti unici, irripetibili. Nessuno dovrebbe essere giudicato per la propria vita privata”.
Condivide il palco di Ubi Maior con suo figlio Leo. Com’è lavorare insieme?
“Incredibilmente naturale. Una volta entrati in scena, sparisce ogni dinamica madre-figlio. Leo diventa un attore, io divento Lorena, lui Tito. Ci ascoltiamo, ci rispondiamo, ci osserviamo, ma da personaggi. Questo è il bello del teatro: ti trasforma, ti libera dai ruoli familiari, anche da quelli reali. E poi Leo ha lavorato duramente, si è costruito il suo Tito con serietà. È un attore curioso, disciplinato, e questo per me è fonte di grande orgoglio, ma anche di rispetto professionale”.
Non è la prima volta che recita in famiglia…
“No, esatto. Tempo fa ho lavorato in scena anche con mio marito, Alessandro Gassmann, nel Riccardo III. Lui era protagonista e regista, io interpretavo Lady Anna. C’era una scena molto forte in cui il mio personaggio sputa in faccia a Riccardo, perché lui ha ucciso suo marito. Ecco, in quel momento… Alessandro non esisteva più. Davanti a me c’era Riccardo III, e io reagivo a lui, al suo crimine, alla sua violenza. È questo che amo del teatro: cancella tutto il resto, anche i legami più profondi. Mentre sei in scena, sei solo il tuo personaggio, e chi hai davanti è soltanto il suo. È qualcosa di potentissimo. E con Leo succede lo stesso. Lo ascolto come ascolterei qualunque attore, anzi forse con un’attenzione ancora più pura, perché lì non c’è più la madre, non c’è più il figlio. Ci sono Tito e Lorena”.
Come si è sentita a essere una delle “donne più invidiata d’Italia”?
(Ride, ndr) “Ma non ci ho mai pensato seriamente. Lo dico senza falsa modestia: è qualcosa che ho sempre rimosso, perché lo percepisco come un’idea esterna, uno sguardo degli altri, non mio. Forse perché per me la vita privata è sempre stata un universo parallelo. Un’onda che non ho mai cavalcato pubblicamente. Quando mi parlano di Alessandro come sex symbol o mi ricordano il famoso calendario, sorrido. Ma io non ho mai vissuto il mio matrimonio come un fatto pubblico. È la mia realtà quotidiana, fatta di normalità, di rispetto, di ironia, e anche di scelte artistiche molto diverse. In scena con lui ho fatto Riccardo III, come dicevamo, e in quel momento era Riccardo, non mio marito. Questa è la magia del teatro: ti libera anche da quello che tutti credono che tu sia”.
Ha scelto il teatro rispetto a cinema e tv. Perché?
“Perché il teatro è verità pura. Il teatro non si può tagliare, non si può correggere, non si può filtrare. Ogni replica è unica, irripetibile, viva. E poi il teatro mi ha permesso, in certe fasi della mia vita, di essere presente come madre, senza rinunciare a me stessa. È stata una scelta libera e consapevole. Non ho mai voluto farmi definire dagli altri: né come moglie di, né come madre di, né come attrice di. E il teatro è stato lo spazio in cui questa libertà è sempre stata possibile”.
C’è una scena in Ubi Maior che la tocca profondamente?
“Sì. C’è una cena, apparentemente ordinaria, in cui i nodi vengono al pettine. In quel momento, tutti i personaggi devono abbassare la maschera. È una scena intensa, commovente, ma mai retorica. Per me è il cuore dello spettacolo, perché ci ricorda che nessuno può aiutare l’altro senza prima mostrarsi per ciò che è. E questo vale nella vita, nell’amore, nella famiglia”.
Ha portato in scena anche monologhi importanti come I monologhi della vagina o La pazza della porta accanto. Che esperienza è, reggere il palco da sola?
“È un salto nel vuoto. Ma anche una forma di potere. Quando sei sola, sei regista di te stessa, sei i tuoi tempi, i tuoi silenzi, i tuoi vuoti. Non puoi appoggiarti a nessuno. Ho amato molto, per esempio, un monologo di Dorothy Parker, in uno spettacolo con Erri De Luca, 28 minuti che si rifacevano a La voce umana di Cocteau. Ogni volta è una sfida. Ma ti lascia addosso una libertà che non ha pari”.
Se potesse scegliere un monologo da portare oggi?
“Mi è arrivato recentemente un testo su Artemisia Gentileschi. Una donna straordinaria, artista, allieva, e vittima di violenza da parte del suo maestro. Portarla in scena oggi sarebbe un atto politico e artistico necessario. La sua voce è ancora la nostra. E fa rabbia, dopo secoli, constatare quanto ancora poco sia cambiato, quanto ci si dimentichi della Storia e si incorra sempre negli stessi errori. Basta guardarsi intorno per constatarlo”.
E oggi? Com’è cambiato il teatro rispetto a quando ha iniziato?
“Molto. E non sempre in meglio. Oggi il teatro non è più considerato un bene culturale primario, come dovrebbe essere. I teatri vengono chiusi, le direzioni artistiche rimosse senza un disegno, le stagioni teatrali sembrano spesso improvvisate, senza una linea, senza una coerenza. Si produce a caso, e questo confonde il pubblico, invece di avvicinarlo. Il teatro dovrebbe avere una funzione pedagogica, identitaria, educare alla complessità, non rincorrere il consenso facile. Andrebbe ripensata la struttura dei finanziamenti, il modo in cui si scelgono i testi, la costruzione delle stagioni. Io sogno ancora stagioni che abbiano un senso tematico, che si pongano delle domande, che offrano visioni. E sogno direttori artistici che leggano davvero i testi prima di portarli in scena”.
E allora, perché insistere? Perché continuare?
“Perché il teatro è ancora un presidio di umanità. È un luogo dove si accende una luce, si spegne un telefono, e per un’ora e mezza torniamo presenti, vivi, vulnerabili, veri. Per questo faccio questa intervista, per questo invito le persone il 29 luglio a Borgio Verezzi. Non per riempire le sedie. Ma per condividere qualcosa che, sotto le stelle, accade una volta sola, e che se non ci sei… non succederà mai più”.
Perché il pubblico dovrebbe venire a vedere Ubi Maior?
“Perché è uno specchio. Perché fa ridere, fa pensare, e tocca corde che tutti abbiamo dentro. Perché parla di famiglia, di bugie affettuose, di libertà, di amore imperfetto. Perché ha un cast sincero, affiatato, generoso. E perché, è il teatro. È qui. È ora”.