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CULTURA E SPETTACOLO

Roberto Ciufoli torna in Rai al fianco di Pino Insegno col programma Facci Ridere: "Ci conosciamo dal liceo"

Dagli scout al palco, da Bramieri alla domenica di Rai 2: Roberto Ciufoli racconta i suoi 40 anni di carriera tra comicità, tv e sport

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Pietro Cerniglia

GIORNALISTA

Con un percorso accademico in Comunicazione, ha scritto di cinema, tv, libri e musica. Ha curato prefazioni e capitoli editoriali, collabora con testate nazionali e gestisce il database di un sito dedicato al cinema.

Roberto Ciufoli torna in prima serata su Rai 2 al fianco di Pino Insegno con il programma Facci ridere. Attore, autore, comico, sportivo instancabile e volto storico della Premiata Ditta, si racconta in una lunga intervista senza filtri a Virgilio Notizie, parlando del mestiere dell’attore, della fatica della comicità, della crisi della tv generalista, del pregiudizio del cinema e della la libertà del palco.

Sta per tornare in prima serata su Rai 2 con Facci ridere, accanto a Pino Insegno. Cosa fa ridere oggi Roberto Ciufoli?

“Mi fa ridere, più di tutto, l’originalità. Non il ‘nuovo’ a tutti i costi, che spesso è solo una rincorsa al diverso, ma proprio l’approccio personale, la visione unica con cui si racconta una situazione, anche già vista. Siamo in un’epoca di omologazione, di appiattimento. Tutto si somiglia, e la creatività sembra diventata un optional. Quando vedo un comico che riesce ancora a proporre qualcosa di autentico, anche solo nel modo di interpretarlo, quello mi fa ridere. E mi emoziona pure”.

Roberto Ciufoli

La televisione la incuriosisce ancora? O pensa che abbia perso qualcosa per strada?

“La tv oggi è molto cambiata, ed è vero, si è un po’ seduta. Ma non è la tv in sé ad avere un problema: è quello che ci si mette dentro. È un mezzo ancora potentissimo, entra nelle case, resta presente anche quando non la guardi davvero. Il punto è che spesso viene trattata con superficialità. Si punta al facile, si semplifica tutto all’estremo, si strizza l’occhio ai social, a certi modelli dove ‘più fai lo scemo, più funzioni’. E invece ci vorrebbe più qualità, più attenzione alla scrittura, all’originalità. Oggi vedo tanta approssimazione. E mi dispiace”.

C’è chi dice che la comicità oggi, nell’era del politicamente corretto, debba autocensurarsi per non offendere. Cosa ne pensa?

Penso che sia una follia. La comicità è, per sua natura, irriverente, acuta, spesso provocatoria. Censurarla significa castrare l’intelligenza. Anche un tema delicato può diventare oggetto di una battuta, se la battuta è intelligente, profonda, ben costruita. Il problema non è cosa dici, ma come lo dici. Se rinunciamo al diritto di scherzare su qualcosa per paura delle reazioni, censuriamo non solo l’umorismo, ma anche la libertà di pensiero. Oggi sembra che se sfiori certi argomenti, arriva subito la polemica. Ma il buon umorismo apre gli occhi, fa riflettere, non chiude la bocca”.

Guardando alla sua carriera, è in scena da più di 40 anni. Quanto è cambiato?

“Cambiato sì, maturato… forse no, per fortuna! Ho sempre cercato di lasciare spazio al ‘bambino’ dentro di me. Non è una sindrome di Peter Pan, ma una risorsa: quell’energia creativa, quella libertà mentale, quella curiosità che da bambini abbiamo naturalmente. È quella che ti permette, ancora oggi, di inventare, di emozionarti, di sognare. Senza quella scintilla, questo mestiere diventa routine. Con quella scintilla accesa, ogni spettacolo è un gioco, un viaggio nuovo”.

Dietro ogni risata, però, c’è tanto lavoro. Quanto pesa quel lavoro?

“Tantissimo. Il comico è un atleta. Si allena, prova, studia. Vai in scena anche quando hai problemi personali, fisici, emotivi. Ci sono giorni in cui non ce la faresti, ma sali sul palco e fai ridere lo stesso. Perché è il tuo mestiere. E per farlo bene devi conoscere il corpo, la voce, l’intenzione. Ogni gesto deve sembrare spontaneo, ma è il risultato di ore di lavoro. Come un prestigiatore che fa apparire un coniglio dal cilindro: tu sai che c’è il trucco, ma non lo devi vedere. Se lo vedi, la magia svanisce. Ecco, far ridere bene è una magia, ma fatta di fatica, studio e precisione”.

E quando il telefono ha smesso di squillare, come ha reagito?

“Per molti anni non ho avuto quel problema. Ma dopo la fine dell’esperienza con la Premiata Ditta, nei primi anni 2000, c’è stato un momento duro. Il telefono ha smesso davvero di squillare. È stato tosto. Ho dovuto fare i conti con il silenzio, con il dubbio, con la paura. Però non mi sono abbattuto. Ho stretto i denti, sono ripartito da capo, anche da piccoli progetti. Ho capito che nella nostra professione bisogna reinventarsi continuamente. E che nessuno ti salva, se non te stesso”.

Diplomato all’ISEF, lo sport lo ha aiutato anche in quei momenti?

“Sì, assolutamente. Lo sport ti insegna tantissimo: la disciplina, la fatica, il rispetto del limite, ma anche la tenacia. Ti insegna a perdere. E soprattutto, ti insegna che, se hai dato tutto, hai vinto comunque, anche se il risultato non arriva. Nello spettacolo è uguale: non sempre la risposta del pubblico è quella che speravi, ma se tu ci hai messo il massimo, devi avere rispetto per te stesso. Lo sport mi ha aiutato ad accettare i ‘no’, ad affrontare i momenti duri con lucidità e con spirito costruttivo”.

E che ruolo ha avuto lo sport nella sua formazione di attore?

“Immenso. Perché mi ha dato il controllo del corpo. Per me, il corpo è il primo strumento dell’attore. Già solo da come ti muovi, racconti un personaggio. L’attitudine fisica, la postura, il modo di camminare, tutto parla prima ancora che tu apra bocca. E grazie allo sport, ho imparato a conoscerlo, a usarlo, a plasmarlo. Ci ho costruito anche uno spettacolo intero, sul linguaggio del corpo. E non è un caso se ci ho messo 40 anni a prepararlo… perché ci ho messo tutta la mia esperienza”.

Quali sport pratica o ha praticato?

“Tantissimi. Nuoto, canottaggio, equitazione, tennis, calcio, pallavolo, polo, subacquea, paracadutismo. Alcuni, come il calcio, li ho dovuti abbandonare per problemi fisici. Ma continuo a remare, a cavalcare, a tenermi in movimento. Ho sempre fatto sport con entusiasmo, non solo per allenamento, ma per curiosità e piacere. Oggi chiaramente rallento un po’, perché il corpo cambia. Ma continuo a divertirmi. E questa, secondo me, è la chiave: accettare i propri limiti senza rinunciare alla gioia”.

Com’è nato il suo amore per la recitazione?

In realtà, è nato ancora prima dell’ISEF. Quando ero ragazzino andavo dagli scout, ed è lì che ho scoperto la passione per il palcoscenico. La sera, intorno al fuoco, si facevano le scenette. Non c’era la tv, l’intrattenimento ce lo inventavamo da soli. Io partecipavo sempre e mi divertivo come un matto, anche perché mi riusciva bene. Sentivo che quello era il mio mondo. Con Francesca Draghetti, che era nel mio stesso gruppo scout, abbiamo iniziato addirittura a sperimentare con luci fatte con i fuochi da campo. Insomma, era teatro puro, istintivo. Poi c’è stato l’ISEF, dove mi sono iscritto insieme a Pino Insegno. Anche lui lo conoscevo dal liceo, da quando avevamo 13 anni. Lavoravamo nelle piscine o nelle palestre per mantenerci e la sera, dopo cena, ci trovavamo per scrivere. A 20 anni abbiamo scritto la nostra prima commedia e l’abbiamo messa in scena. Da quel momento in poi, è partita la nostra strada nel teatro, che poi ha portato alla Premiata Ditta, alla tv e a tutto il resto. Ma le radici, quelle vere, stanno lì: attorno a un fuoco, con il pubblico che rideva. È stato come cadere da piccolo nel pentolone della pozione magica”.

Quarant’anni di carriera: ricorda il momento in cui tutto è cominciato davvero, sul serio?

“Il primo spettacolo vero lo abbiamo fatto con una compagnia che si chiamava Allegra Brigata, era il 1981. Poi, negli anni successivi, siamo entrati in televisione col G.B. Show, un varietà registrato al Teatro Sistina. Lì c’erano dei nomi pazzeschi: Gino Bramieri, Enrico Vaime, Gino Landi, Romolo Siena. Noi, insieme a Pino Insegno e agli altri, eravamo autori dei nostri testi. C’erano riunioni vere, serie, in cui buttavamo via battute che oggi farebbero faville in programmi da sei edizioni. Quella era una vera scuola. Poi, nel 1986, è nata ufficialmente la Premiata Ditta, che è stata la nostra casa per vent’anni. Prima eravamo in una formazione più ampia, poi ci siamo stretti attorno a un’identità precisa: io, Pino, Tiziana Foschi e Francesca Draghetti. Abbiamo fatto di tutto: teatro, tv, varietà. Abbiamo inventato un nostro stile. Nessuno prima faceva quello che facevamo noi. Dopo il 2006 ci siamo separati, in maniera serena, ma dopo aver vissuto fianco a fianco tutti i giorni per vent’anni. Letteralmente”.

La Premiata Ditta: Roberta Draghetti, Pino Insegno, Tiziana Foschi e Roberto Ciufoli

Tanta tv ma pochissimo cinema. Si è sentito sottovalutato?

“Sì, e lo dico con sincerità. Ho trovato spesso molta pigrizia da parte di chi fa cinema. Essere comico e, peggio ancora, comico televisivo, era come avere due marchi d’infamia. Per anni, non ti prendevano nemmeno in considerazione. Eppure, io stavo in scena con Luca Ronconi, al Piccolo di Milano. Ma per una serie tv, ad esempio, non mi presero perché ero ‘troppo riconoscibile’. Queste sono ferite, sì. Mi sarebbe piaciuto fare più cinema. Peccato”.

Ha mai avuto la sensazione di aver raggiunto la vetta?

“No. Non voglio vederla, la vetta. Non l’ho mai vista. Se proprio devo dirne una, è la pensione. Dopo 42 anni di contributi e il servizio militare, mi è arrivata. E ora posso anche non lavorare più senza morire di fame. È un bel traguardo, perché per anni mi hanno detto: ‘Ma che lavoro fai?’. ‘L’attore’. ‘Sì, ma di lavoro vero?’. Ora prendo la pensione da attore. E questo, credimi, è bellissimo”.

Ha partecipato lo scorso anno anche a Tale e Quale Show. Che esperienza è stata?

“Divertentissima. Faticosa, perché c’erano ore di trucco, prove vocali, imitazioni difficili. Ma bella. Il gruppo era fantastico. Ci siamo divertiti, siamo rimasti in contatto. Poi è un programma che ha come obiettivo lo spettacolo, non la competizione esasperata. Mi sono piaciute le sfide, anche quando erano folli, tipo cantare con Carmen Di Pietro! Ma alla fine è stato tutto uno show. Mi sono divertito tantissimo, soprattutto con la performance nei panni di Carosone o di Tony Effe, che inizialmente mi lasciava perplesso”.

C’è qualcosa che non vorrebbe mai si scrivesse su di lei?

“Qualcosa di falso. Di non mio. Ho abbastanza difetti veri, raccontate quelli! Ma non mettetemi addosso cose che non mi appartengono. Mentire su una persona è la cosa peggiore. Meglio una verità scomoda che una bugia facile”.

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