Quelli che equipaggiavano le maximoto italiane fra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 (come Laverda SF 750 e Moto Guzzi V7 Sport), avevano raggiunto un livello di raffinatezza molto elevato: a doppio piatto con quattro camme e quattro ganasce di 230 mm Ø (220 per la V7). Tuttavia, per quanto fossero comunque belli da vedere ed efficaci, non reggevano esteticamente il confronto coi freni a disco, peraltro, all’epoca ancora poco efficienti, sfoggiati dalle moto giapponesi (che stavano cominciando a invadere il nostro mercato).
Nelle auto, invece, i Freni a Tamburo sono sempre stati ben nascosti e anche per questo non si è mai sentito il bisogno di curarli maggiormente sul piano estetico. Così è stato fin dalla loro invenzione, nel 1902, a opera di Louis Renault (sì, proprio quello che fondò l’omonima Casa automobilistica…). Attualmente sopravvivono in alcune auto economiche, rigorosamente relegati al retrotreno (ove, peraltro, a causa del trasferimento dei carichi verso l’asse anteriore in frenata, non danno un gran contributo alla decelerazione…).
Cinque componenti fondamentali
Nello specifico, un Freno a Tamburo è composto da cinque elementi fondamentali: il tamburo vero e proprio (un componente cilindrico solitamente costruito in ghisa o in acciaio, che gira solidalmente alla ruota) con una superficie interna (detta pista) anulare sulla quale vanno a premere le ganasce. Su queste ultime ci sono dei pattini conformati a “mezzaluna” (per “appoggiarsi” perfettamente sulla superficie cilindrica) spinti da un attuatore idraulico a doppio effetto, solidale al piatto portaceppi, sui quali è rivettato del materiale d’attrito resistente al calore e all’usura.
Quando non si applica carico idraulico, le ganasce vengono riportate nella posizione di riposo da una molla di ritorno e restano adeguatamente distanziate dalla pista anulare del tamburo. Per azionare le ganasce c’è un opportuno sistema di attivazione, che può essere idraulico (nella maggior parte dei casi), meccanico a cavo (come negli scooter), oppure pneumatico, a seconda del veicolo.
Ecco come funziona
Già dalla descrizione dei componenti si intuisce il principio di funzionamento del Freno a Tamburo: premendo il pedale (o tirando la leva al manubrio nelle moto), si mette in pressione il sistema idraulico che sposta con forza il cilindro di comando e spinge le ganasce contro la superficie interna del tamburo.
Questo contatto fra le guarnizioni e la pista frenante crea un forte attrito che si oppone al movimento della ruota, riducendone la velocità fino (eventualmente) a fermarla. Rilasciando il pedale, le molle di ritorno allontanano le ganasce dal tamburo interrompendo il contatto e permettendo alla ruota di riprendere a girare.
Il suo meglio e il suo peggio
Come abbiamo visto, il Freno a Tamburo è un dispositivo concettualmente semplice ma davvero robusto oltre che più economico da costruire rispetto a un corrispondente impianto a disco. Contrariamente a quanto si crede, offre livelli di efficacia frenante ben superiori (a parità di sforzo applicato, diametro e coefficiente di attrito della guarnizione) a quella di un disco. Inoltre, i Tamburi durano più a lungo, e questo è il motivo, assieme al basso costo, per il quale li vediamo ancora nelle auto e nei motoveicoli con fascia di prezzo bassa. Senza contare che vengono largamente utilizzati per il freno di stazionamento delle automobili, perché mantengono le ruote meglio frenate soprattutto sulle strade inclinate.
Per come è costruito (in una “scatola chiusa” all’interno del cerchio), il Freno a Tamburo ha un solo grande nemico: il calore. Per questo è molto più soggetto al “fading”, cioè al surriscaldamento nell’uso intenso, che porta a vistosi allungamenti degli spazi di arresto, fino ad arrivare a deformare il freno stesso. In queste condizioni, se la guarnizione di attrito non è rivettata se ne può verificare il distacco fino a provocare il blocco della ruota. Per giunta, il Tamburo ha una massa piuttosto elevata e richiede una più frequente manutenzione di controllo (anche a causa della marcata usura delle ganasce, che può generare abbondante polvere di consumo all’interno).