Giulio Beranek, mille vita in una: la povertà, il sogno Olympiakos in frantumi e il successo con Gerri
Da una roulotte senza luce alla prima serata Rai con Gerri: Giulio Beranek racconta la sua rinascita tra dolore, rivincite e amore vero
Giulio Beranek è una di quelle rare presenze che non si limitano a occupare uno spazio sullo schermo, ma lo abitano con l’intensità di chi ha vissuto davvero. Attore per vocazione tardiva e narratore per necessità interiore, porta sul set un carico umano che non si può simulare: quello di una vita vissuta ai margini, tra le giostre di periferia, la povertà reale e la ricerca ostinata di una dignità mai negoziabile. Con Gerri, la serie noir tratta dai romanzi di Giorgia Lepore di cui è stato protagonista, Beranek ha raggiunto una nuova maturità espressiva. Di questo, e di molto altro, ne ha parlato lui stesso nell’intervista concessa a Virgilio Notizie.
Ti ha sorpreso il successo con la serie Gerri?
“Onestamente, sì. Non sono mai stato il tipo che si aspetta il successo in ciò che fa. Terrei molto a una seconda stagione, sia per l’accoglienza ricevuta, sia perché credo che se la meritino tutti quelli che ci hanno lavorato. Ma soprattutto la storia: abbandonarla sarebbe un vero peccato. Il pubblico ha apprezzato molto la scrittura di Giorgia Lepore e il suo virare verso un noir inedito nella fiction italiana. All’inizio la storia sembrava lenta, quasi noiosa, ma poi ha preso il volo, segnando una piccola rivoluzione nella proposta Rai: ha educato lo spettatore a qualcosa di diverso”.
Il personaggio di Gerri ti ha permesso di capire qualcosa di te stesso come uomo?
“Lo dico sempre: ogni progetto mi fa crescere sia artisticamente che umanamente. Con Gerri sono cresciuto molto, anche perché è stato un lavoro lungo. Quando passano quasi due anni dalla preparazione alla messa in onda, ci resti legato fino a quando non viene trasmesso e ti libera. Gerri mi ha portato più calma e pazienza. Sono diventato un uomo più capace di spegnere i motori e aspettare il momento giusto”.
Se all’adolescente che sei stato avessero detto che un giorno saresti stato il volto di punta di una serie Rai, che avresti risposto?
“Probabilmente: ‘Ma di che parlate?’. Non ricordavo nemmeno di aver mai pensato di fare l’attore. Poi, a una cena con mia madre e la mia compagna Claudia, ho scoperto di averlo detto una volta da ragazzino. Era stato dopo una punizione (sì, mia madre menava e voleva che studiassi): ‘Non devo studiare, tanto diventerò un attore’, dissi. Mia madre mi rispose che sarei rimasto ignorante se non avessi letto. Forse nemmeno sapevo cosa stessi dicendo. Sognavo al massimo di diventare calciatore”.
Hai raccontato la tua vita nella docuserie Il re del Luna Park: ma la verità, per chi ha vissuto difendendosi come Giulio Beranek, quanto fa male e quanto libera?
“Quello che appartiene davvero al passato raramente fa male. Raccontare la verità libera e alleggerisce. È l’inizio della guarigione. Fare i conti con me stesso era necessario: volevo mettere ordine, ricordare, rielaborare. Farlo con calma mi ha aiutato a tirare fuori anche ciò che avevo rimosso”.
Fonte foto: US CZ24 Comunicazione
La recitazione ti ha salvato. Ma quando hai capito che era il momento di farti salvare?
“Mi sono lasciato andare per molto tempo, poi ho provato a riprendermi col calcio. Avevo ancora contatti in Grecia, con l’Olympiakos, e per cinque giorni ho giocato in una squadra di Serie B. Ma non mi sentivo più a mio agio: non avevo vissuto gli ultimi anni da atleta. Sono competitivo, e lo capii subito. Non sarei tornato indietro, alla vita di prima. Pensavo piuttosto a un lavoro stabile, magari in fabbrica. Poi è arrivato il cinema, quasi per caso. Non cercavo il successo: cercavo una vita dignitosa, normale”.
Negli anni delle giostre, hai sfiorato spesso la morte. Oggi, come riconosci di essere vivo?
“Dalle piccole cose belle”.
Cosa ti fa sorridere oggi?
“La tranquillità, anche economica, raggiunta. Non c’è nulla di romantico nella povertà se non il modo in cui la vivi e io ho avuto la fortuna di avere avuto due persone che mi hanno insegnato a viverla con dignità. Ora che ho una mia tranquillità sorrido e rimango sereno proprio perché ho vissuto la povertà più profonda, quella di un figlio che vede lavorare il padre anche solo per 50 centesimi, che vive in una casa che non è un appartamento in cui sentirsi protetto ma una roulotte dispersa chissà dove senza corrente elettrica o acqua, e che fa parte di una famiglia che non ha nemmeno i soldi per mettere il piatto in tavola. La povertà di cui parlo non è quella tanto decantata oggi da chi si dice povero perché il padre ha uno stipendio da operaio. Magari avessimo avuto quello stipendio o avessi avuto la paghetta da 100 euro a settimana… per noi quei 100 euro rappresentavano lo stipendio di un mese e mezzo di lavoro o forse più. Sapere oggi di essere economicamente coperto per sei mesi o per un anno mi fa dormire sereno”.
Trasformare le proprie fragilità in forza: Giulio Beranek non teme che questa forza venga fraintesa?
“No. La mia fragilità è il mio bagaglio emotivo. È il cuore di quello che porto sul set. È ciò che sono. Fondamentalmente, è quello il mio cuore, la mia anima. E credo che sia anche la parte più bella di me: l’uomo che sono è figlio di quello che sono stato. Ed è la ragione per cui non ne parlo mai piangendomi addosso. Può sembrare paradossale ma mi reputo fortunato. Ho potuto vivere quei traumi e quelle difficoltà della vita con una madre e con un padre che, anche senza soldi in tasca, hanno continuato a ripetermi che non dovevo mai chiedere niente o farmi comprare: povero sì ma sempre signore… Mi rendo conto che spesso c’è una narrazione da parte di chi diventa noto dopo aver vissuto difficoltà che tende alla glorificazione o all’auto incensamento. Ma è un tipo di racconto che non mi appartiene: ho scritto prima Il figlio delle rane e poi Il re del Luna Park affinché si vedesse, senza vergogna, da quale sporco nascessero la forza e la dignità. Non ero interessato al melodramma: non amo chi utilizza le proprie vicissitudini per farci ad esempio una canzone trap, con una storia sempre simile declinata in tutte le salse. Anche basta, direi: abbiamo sofferto tutti e abbiamo tutti i nostri traumi”.
Ti definisci attore?
“No, sono uno che fa l’attore. Come faccio anche altro: scrivo, sceneggio. Cerco di fare bene ciò che faccio”.
Hai detto: ‘Mi sentivo un diverso che cercava di essere uguale agli altri’. È ancora così?
“No, c’è stato il passaggio successivo. Ora rivendico il mio essere diverso: io sono questa cosa qui”.
Famiglia e amore sono centrali in Gerri. Che significato hanno per Giulio Beranek?
“Sembrerò banale, ma credo che le cose importanti siano semplici. Famiglia è quel nucleo stretto di persone di cui ti puoi fidare. L’amore è il tuo posto sicuro, ciò che cerchi di costruire. E per entrambi serve fortuna: trovare la persona giusta è un terno al lotto. Ho sempre cercato stabilità sentimentale. Non sono mai stato come Gerri: ho avuto solo quattro relazioni perché ho sempre sentito l’esigenza di costruire casa. Mia madre e mia sorella dicono: ‘Più che tradirti, ti lascia’. Quando amo, non mi manca nulla. Sono fidanzato da un anno e credo di aver avuto con Claudia la mia ultima fortuna in termini di conoscenze di persone, sul lavoro o nella vita privata, che riescono a sostenerti, a farti crescere e a regalarti serenità. Riconoscenza e gratitudine verso le brave persone e i tanti bravi professori incrociati sono sentimenti per me importanti”.
Sei padre. Come trasmettere empatia e ascolto quando da piccolo nessuno te li ha insegnati?
“Sto imparando. Essere genitore oggi è una grande responsabilità. Cerco di fare le cose con attenzione, di dare l’esempio. Sto imparando a fermarmi, ad ascoltare, osservare, con l’intento di educarli alla gentilezza, alla condivisione e alla tranquillità attraverso l’esempio. Cresceranno, e crescerò con loro”.
Recitare significa smontarsi e ricostruirsi. Hai mai avuto paura di non ritrovarti?
“No. Sono figlio delle rane, un’attrazione: mi decostruisco e mi ricompongo ogni volta in una nuova forma. A volte perdi dei pezzi, ma magari sono quelli che non ti servivano più. Non ho mai temuto di perdermi”.
Neanche con i personaggi più estremi?
“No. Ora sto girando Cattiva strada: interpreto un ragazzo albanese segnato dal kanun (un codice d’onore albanese, ndr) un piccolo criminale. È violento, ma umano. Ed è quella parte umana che voglio raccontare. Lo vivo, ma poi lo lascio lì.”
Cosa cerchi ancora nel tuo mestiere?
“A muovermi è il costante desiderio di riscatto. Voglio che la gente si renda conto che sono una brava persona: sono molto legato al mio vissuto e al mio passato e so quanto è stato difficile arrivare qui, per cui continuo ad averne fame. Una fame che non ho ancora saziato, forse solo ora ho cominciato a placarla”.
“Quanto è bono Gerri”, ha scritto qualcuno recensendo la serie riferendosi più che altro a Giulio Beranek più che al personaggio…
“Non do importanza a queste cose. Non so nemmeno come sia stata percepita la mia immagine: ricevo messaggi sui social ma molti non li leggo. Dei miei post, se ne occupa principalmente Claudia”.
Ti sei reso conto del successo?
“Sì, per strada. Ma spesso mi fermano persone che mi seguono dai tempi di Marpiccolo o Tutto può succedere. Il complimento più bello è: ‘Che attore sei diventato!’. È da chi è cresciuto con me che capisco cosa ho costruito: sono loro gli arbitri più oggettivi rispetto alla carriera di un attore”.
Il successo di Gerri è una rivincita su chi ti ha detto di no?
“No. Non vivo di rancori. Mio padre mi ha insegnato a essere un signore, come detto prima. Per me conta lavorare con onestà e coraggio. E di coraggio ne hanno avuto Cattleya, Rai Fiction, Maria Pia Ammirati e Giuseppe Bonito, nell’affidarmi un ruolo come Gerri per la prima serata di Rai 1”.
