Rosa Diletta Rossi parla di Maria Corleone, dalle voci sulla terza stagione alla paura dell'etichetta
Dopo il successo della serie Maria Corleone su Canale 5, Rosa Diletta Rossi parla di sé e del rapporto col personaggio: l'intervista
Ci sono attrici che interpretano ruoli e poi ci sono quelle che li abitano, li attraversano, li portano addosso come un peso e una possibilità: Rosa Diletta Rossi appartiene senza dubbio alla seconda categoria. Volto intenso e pensiero affilato, negli ultimi anni è diventata una delle presenze più credibili e complesse della serialità italiana. Il pubblico l’ha conosciuta in Nero a metà, l’ha amata e temuta in Maria Corleone, l’ha scoperta ancora più profonda in Per Elisa – Il caso Claps. Si è raccontata a Virgilio Notizie in una lunga intervista realizzata durante l’On Air Festival di Palermo.
La seconda stagione di Maria Corleone su Canale 5 si è appena conclusa: come si è evoluto il rapporto di Rosa Diletta Rossi con Maria? E cosa puoi dirci del suo percorso?
“La seconda stagione è stata sicuramente più intensa sotto il profilo emotivo. Se nella prima Maria era ancora in bilico tra il passato e un presente che la travolgeva, in questa nuova fase è come se si trovasse davanti a un bivio definitivo. Le situazioni che affronta sono dure, spesso tragiche, e la costringono a interrogarsi davvero su chi vuole essere. La domanda che attraversa tutta la stagione è: sceglierà finalmente la legalità o tornerà a perdersi nei vecchi schemi familiari, nei meccanismi che la legano al crimine? Per me, come attrice, è stato un lavoro molto più interiore. Ho dovuto contenere di più, trattenere, gestire emozioni come la rabbia senza sfogarle apertamente. Ho lavorato meno sull’istinto e più sul controllo, sulla riflessione, sulle contraddizioni che rendono umano un personaggio. Maria è diventata quasi una lente attraverso cui esplorare le pulsioni più profonde, anche quelle che facciamo fatica ad ammettere. Sul suo percorso non posso dire ancora nulla, la messa in onda della seconda stagione è appena terminata e neanche noi sappiamo quale sarà il suo futuro, speriamo il più lungo possibile”.
Maria Corleone è un personaggio che ti ha cambiata, umanamente o professionalmente?
“Difficile dire se un personaggio ti cambia, perché il cambiamento non avviene in automatico. Ma sicuramente il confronto con una storia così forte ti mette davanti a qualcosa. Ti costringe a guardarti. E, alla fine, sei tu a decidere se lasciare che quella storia ti tocchi, ti trasformi, oppure no. Per quanto mi riguarda, il lavoro su Maria mi ha restituito una cosa molto preziosa: la fiducia. È come se mi avesse detto: ‘Puoi reggerlo questo peso, puoi portare avanti la narrazione di un’intera serie’. Quando lavori tutti i giorni su un personaggio, non puoi più permetterti di scomparire o di lasciare che siano gli altri a tenere in piedi il racconto. Diventa una responsabilità che si allarga anche fuori dal set, a livello collettivo. E sì, questo ha tirato fuori in me una piccola ma importante conferma: ‘Ce la posso fare, posso essere un punto di riferimento anch’io’. È stato un passo avanti anche nella percezione che ho di me stessa”.
Maria, in questa seconda stagione, smette di essere figlia e diventa una donna. Quando è successo questo passaggio nella tua vita?
“Credo molto presto. Non saprei dire un momento esatto, ma la volontà di autonomia in me è nata in maniera precoce, quasi istintiva. Non è stato un gesto di ribellione verso un contesto negativo, tutt’altro. Sono cresciuta in un ambiente protetto, affettuoso. Ma c’era in me un’urgenza: quella di capire fin dove potessi arrivare con le mie sole forze. Volevo confrontarmi con il limite, con il mio potenziale, senza filtri. Così ho passato molti anni a mettermi alla prova. È un tratto del mio carattere che ancora oggi mi accompagna. Allo stesso tempo, paradossalmente, adesso che ho costruito una certa autonomia, mi sto permettendo di tornare figlia. Riesco a chiedere, a lasciarmi aiutare, a tornare alle origini con più leggerezza”.
La televisione ha dato grande visibilità a Rosa Diletta Rossi, ma il cinema sembra ignorarla. È il famoso “circoletto” di cui si parla sempre? È una frustrazione?
“Non so se sia una mancanza di attenzione o semplicemente uno sguardo che non si è ancora incontrato col mio. I percorsi professionali sono imprevedibili, ognuno segue traiettorie diverse. Quello che posso dire è che oggi viviamo in un tempo frenetico, in cui tutto cambia di direzione continuamente. Ogni giorno – anzi, ogni minuto – c’è un nuovo argomento da affrontare, e mantenere uno sguardo collettivo, complesso, è diventato uno sforzo raro. Io cerco di restare fedele alla mia strada, non mollo. Finora ho avuto delle opportunità preziose e ho cercato di sfruttarle al massimo”.
Fonte foto: US Mediaset
Ti è dispiaciuto che Martedì e Venerdì, film in cui interpreti un personaggio molto tosto, non abbia avuto il riconoscimento che meritava?
“Credo che le risposte siano riposte nei luoghi in cui devono stare in quel momento ma non escludo che un giorno possano essere ripescate: sembra quasi fatalista ma non vorrei un giorno dire ‘Però ve l’avevo detto!’. Cerco di essere sempre cosciente rispetto alla preparazione che metto nell’affrontare questo lavoro ma il dispiacere più grande non è tanto per me o per il ruolo. Il vero rammarico è per Adamo Dionisi, che è stato un attore straordinario, onesto, sincero. Quel film è stato il suo ultimo lavoro, e credo che meritasse più luce. Potevamo restituirgli qualcosa in più, anche solo con l’attenzione. Per quanto mi riguarda, sono una grande fan di quelli che arrivano secondi… ma va bene, resistiamo”.
Ti spaventa qualcosa, dopo un ruolo forte come Maria?
“Più che il personaggio in sé, mi spaventa l’etichetta. Non quella che ti dà un ruolo, ma quella che rischia di appiccicarsi alla persona. Mi fanno paura le storie che non vanno da nessuna parte, i progetti che sembrano solo ripetersi. Mi inquieta l’idea di un cinema che si autoalimenta, che non cerca più di raccontare davvero. Ma la paura più grande è un’altra: scoprire, un giorno, di non avere più niente da dire. Di sentirmi vuota, esaurita, senza voce. Quello sì, mi terrorizza. Ed è anche il motivo per cui continuo a mettermi in discussione, a cercare. Non voglio che siano gli altri a definirmi. Non voglio che la mia identità professionale venga scritta da fuori”.
Hai mai detto un “no” di cui sei orgogliosa?
“Più che darli, i ‘no’ li ho ricevuti, come tutti. Ma ci sono stati anche progetti che ho scelto di non fare. Non perché fossero brutti o sbagliati, ma perché non li sentivo miei. I personaggi non mi parlavano, non mi rispecchiavano. Dire che ne vado fiera forse è troppo, ma sono grata di aver fatto delle scelte in linea con me stessa. Oggi sto cercando di fare spazio, di selezionare meglio, di lasciare entrare solo ciò che davvero sento vicino. E quando ricevi un ‘no’, certo fa male, ma spesso ti costringe a fare il punto e a ripartire più lucida”.
Quanto conta la popolarità, in questo lavoro? E come la vivi tu?
“Nel mio caso non ho una popolarità tale da non poter vivere serenamente la mia vita, e per ora questo lo considero un vantaggio. Riesco ancora a muovermi con libertà, a frequentare i luoghi che amo. Certo, la popolarità può emergere in alcuni ambienti – quelli più esclusivi, più esposti – ma se decidi di passare il weekend in montagna o di andare a fare la spesa al mercato, è difficile che tu venga assediata. In generale, non ho mai rincorso l’esposizione. E quando arriva, cerco di viverla con gratitudine ma anche con leggerezza”.
Fonte foto: US Rai
Tra una scena di bacio e una di sparatoria, quale ti dà più adrenalina?
“Dipende. Dipende da chi devo baciare e da come devo sparare! (ride, ndr). A parte le battute, impugnare una pistola, anche solo per finzione, è un gesto che ha un peso simbolico fortissimo. È come se estendessi il tuo potere, come se ti venisse data un’autorità che normalmente non possiedi. È un oggetto che galvanizza, inutile negarlo, perché ti trasforma, ti carica di tensione. Naturalmente, non è una cosa che userei mai nella vita reale, ci mancherebbe: mai sparare. Ma nella finzione ha un impatto forte. Detto questo, i baci contengono una verità molto più complessa. Un bacio sullo schermo può dire mille cose. Quindi, se proprio devo scegliere, tutta la vita: i baci”.
Uno dei tuoi progetti più intensi è stato Per Elisa – Il caso Claps. Cosa ti ha lasciato?
“È uno dei lavori a cui sono più legata in assoluto. Mi ha dato l’opportunità di entrare in contatto con una storia italiana dolorosa, reale, che per troppo tempo è stata messa da parte. L’ho fatto con rispetto, cercando di ascoltare chi quella vicenda l’ha vissuta sulla propria pelle. Ed è successo qualcosa di straordinario: sono nate relazioni umane autentiche, come l’amicizia con Gildo Claps e Irene Nardiello. Non me lo aspettavo. Questo è il tipo di miracolo che può accadere solo se il cinema smette di essere spettacolo e diventa ascolto. Quando capita, è rarissimo, ma cambia tutto. Penso che parte del successo della serie sia dovuto proprio a questo: alla sincerità con cui i veri protagonisti hanno deciso di partecipare. Non solo con i fatti, ma con il cuore. È un privilegio che non dimenticherò”.
C’è un consiglio che hai ricevuto da un collega e che porti ancora con te?
“Una volta Claudio Amendola (con cui ha lavorato nella serie Nero a metà, ndr) mi ha detto: ‘Non te li fare mai i denti’. A prima vista sembrava una battuta, ma mi ha colpita. Era un invito a non cedere alla vanità, a non farsi risucchiare da quella ricerca costante di perfezione che spesso travolge chi lavora con l’immagine. L’ho interpretato come un’esortazione a restare con i piedi per terra, a preservare l’autenticità. In fondo, il nostro mestiere è dare anima e corpo a qualcun altro, anche peggiorandoci, trasformandoci, diventando altro. Shakespeare parlava di ‘sottomettere l’anima all’immaginazione’. Ecco, per me è questo: abbandonare il controllo su come appari per poterti immergere davvero nel personaggio. Se siamo ossessionati da noi stessi, togliamo qualcosa all’altro che stiamo cercando di interpretare”.
Cosa ti sei regalata con i primi soldi guadagnati?
“Un corso di arrampicata sportiva. Era un mio desiderio da tempo, ma non me l’ero mai concessa perché costava, e in certi momenti della vita fai altri conti. Quando finalmente ho potuto, non ci ho pensato due volte. È stato un regalo che parlava di me. Volevo uscire dalla comodità, affrontare una paura, quella delle vertigini, e trovare un nuovo equilibrio nel disequilibrio. L’arrampicata è diventata una metafora perfetta: salire, rischiare, restare in tensione, ma con presenza e consapevolezza. È una delle più grandi scoperte che ho fatto su me stessa”.
Molti attori dicono che recitare li ha salvati. Vale anche per te?
“Non so se direi che mi ha salvato, almeno non in senso romantico. Ma sicuramente mi ha dato un’ancora. Credo che ci salvi tutto ciò che ci permette di aderire profondamente a ciò che siamo. Se fai il tuo lavoro con questa adesione, cioè con verità, allora sì, può essere salvifico. Ma non vale solo per gli attori. Vale per chiunque abbia il coraggio di scegliere un mestiere che lo rispecchia, che lo obbliga a restare in contatto con la propria integrità. Io sono salva perché ho desiderato questo lavoro. Perché lo scelgo ogni volta, anche quando è faticoso, anche quando mi lascia svuotata. Mi salva dalla mia perenne irrequietezza, dal bisogno continuo di scoprire, cambiare, capire. Attraverso i personaggi, continuo a rivedermi, reinventarmi”.
Cosa ti scuote quando finisci un progetto?
“La fatica. Quella vera. Ogni personaggio modifica il mio equilibrio, anche fisico. Quando preparo un ruolo come Maria Corleone, devo allenarmi tre volte a settimana. Se invece lavoro su un personaggio come Alda Merini (nel film per la tv Folle d’amore, ndr), mi immergo completamente nella scrittura, nella clausura mentale, e perdo ogni contatto con l’esterno. Ogni progetto sposta qualcosa dentro di me: abitudini, desideri, perfino alimentazione o sonno. È un disordine profondo, un cambiamento di ritmo che ti lascia spossata: devo abituarmi a qualcosa che non mi fa stare comoda. E quindi è stancante sia quando mi lascio troppo andare sia quando sono tanto in controllo. Quando finisce, mi sento spaesata: è come se non sapessi più bene chi sono, cosa mi piace, dove devo tornare. La prima cosa che cerco è un luogo che mi riporti a me stessa”.
Fonte foto: US Medusa
Qual è quel luogo?
“La montagna. Sempre. La montagna ha qualcosa di sacro per me. È silenziosa, potente, non ha bisogno di spiegarsi. Mi ricorda quanto sono piccola e quanto il mondo sia grande. Lì ritrovo la fatica giusta: quella che ti mette in contatto con la terra, con la verticalità delle cose. Camminare in montagna, salire, sudare, respirare: sono gesti che mi riportano alla base, alla verità. È un’esperienza di umiltà totale. Mi serve, ogni volta”.
Sei felice, oggi?
“Sono serena. Come diceva Monica Vitti, ‘la felicità sono attimi di dimenticanza’. Ci sono momenti in cui la vita ti sottopone a stress emotivi più intensi ma questo per me è un momento di grande dimenticanza”.
