Il regista Luca Ribuoli dal racconto di Totti e la mafia a Call My Agent e Fallaci: "Ero terrorizzato"
L’intervista al regista Luca Ribuoli, dalla direzione artistica dell’Ottobre Alessandrino alla riflessione sul valore del racconto
Con oltre 90 appuntamenti in tutta la città e un cartellone fitto di ospiti illustri, l’Ottobre Alessandrino – Mese del Cinema si è confermato uno degli eventi culturali più vitali del Piemonte. Nato dall’unione dell’Alessandria Film Festival e del Premio Adelio Ferrero, il festival è ideato e co-diretto da Luca Ribuoli, regista alessandrino noto al grande pubblico per successi come Miss Fallaci, Speravo de morì prima, Call My Agent – Italia, Noi, L’allieva e La mafia uccide solo d’estate. In questa intervista esclusiva per Virgilio Notizie, Luca Ribuoli riflette sul valore della cultura nei territori, sul suo personale rapporto con il cinema e sull’urgenza di tornare a raccontare storie che mettano al centro l’umano.
Ottobre Alessandrino è alla sua seconda edizione ed è cresciuto moltissimo in un solo anno. Se lo aspettava?
“Sinceramente no. Anche perché mettere insieme una seconda edizione non è stato affatto facile. Lo scorso anno è stato un esperimento, una scommessa: abbiamo cercato di costruire qualcosa che non fosse solo un insieme di eventi, ma una proposta culturale vera e propria per la città. Quest’anno ci siamo detti: Diamo una struttura, un’identità forte al Festival. E ci siamo riusciti, grazie anche al lavoro di squadra, al sostegno delle istituzioni, e alla risposta del pubblico che è stata incredibile. Abbiamo superato i 90 eventi, portato nomi importanti del cinema italiano e internazionale, e soprattutto creato una sensazione diffusa che a ottobre, ad Alessandria, succede qualcosa di speciale. Una cosa che mi ha molto colpito è sentire parlare del Festival anche a Roma, tra colleghi del settore. Significa che il lavoro sta uscendo dai confini locali. La città sta diventando un punto di riferimento culturale”.
Cosa è cambiato nella direzione artistica rispetto allo scorso anno?
“L’anno scorso ho curato la direzione artistica da solo. Quest’anno, invece, è stato fondamentale unire le forze: abbiamo lavorato a quattro mani con Roberto Lasagna, che porta l’esperienza dell’Alessandria Film Festival e del Premio Adelio Ferrero. La sinergia tra questi due mondi ha dato vita a un programma più ricco, più articolato, capace di parlare a pubblici diversi. Non volevamo solo proiezioni: abbiamo voluto talk, concerti, tavole rotonde, performance, eventi pensati per le scuole, per le famiglie, per chi il cinema lo ama, ma anche per chi lo conosce poco. E poi abbiamo fatto rete, coinvolgendo tutto il territorio, dalle associazioni culturali alle realtà sociali”.
C’è stato un filo conduttore?
“Sì, e non è stato casuale. Il tema che ci ha guidato è stato la complessità. Viviamo un tempo difficile da interpretare, fatto di crisi sovrapposte: sociali, climatiche, identitarie. Non potevamo far finta di nulla. Così abbiamo deciso di costruire una narrazione che attraversasse la contemporaneità, partendo anche da una figura come Umberto Eco, alessandrino illustre, che della complessità ha fatto la sua cifra. Da lì abbiamo inserito eventi che affrontassero temi come la guerra, la migrazione, la salute mentale, la memoria, le nuove generazioni. E anche i film selezionati, a partire da Diciannove di Tortorici, riflettono questo sguardo”.
Quanto è importante che la cultura oggi si faccia carico di questi temi?
“È cruciale. Il mondo è in difficoltà, c’è una crisi sistemica che attraversa ogni ambito. Nessuno ha risposte pronte, neanche i filosofi. Ma la cultura può, anzi deve, offrire spazi di riflessione, di confronto, di empatia. E poi serve partecipazione. C’è bisogno di tornare a parlarsi, di guardarsi in faccia, di sedersi insieme in una sala e vivere qualcosa. Per questo abbiamo voluto che il Festival fosse il più possibile accessibile: il 98% degli eventi è gratuito. È una scelta politica, nel senso più alto del termine. Non possiamo più permetterci una cultura che esclude. Dobbiamo costruire ponti, non alzare muri”.
GIUSEPPE CORALLO
Lei è alessandrino. Che significato ha per lei oggi Alessandria?
“L’ho capito proprio grazie a questo Festival. Io il cinema l’ho scoperto da bambino qui, non a Roma. Me n’ero dimenticato. Ma sono cresciuto in mezzo a persone che avevano passione, che credevano nell’arte, che organizzavano cineforum e rassegne. Senza accorgermene, mi hanno formato. E oggi sento il bisogno di restituire qualcosa. Alessandria ha bisogno di cultura, di occasioni per raccontarsi in modo nuovo. E credo che questo Festival stia andando in quella direzione”.
Ricorda il primo film che ha visto da bambino?
“Certo. Il Paradiso può attendere, al Cinema Moderno, proprio in piazzetta della Lega. Mia madre decise di portarmi un pomeriggio, forse non sapeva nemmeno bene che film fosse. Ed è ironico pensare che proprio lì oggi ci sia l’Infopoint del Festival. Poi ho continuato a vedere film su film. Ricordo quando portai mia madre a vedere Pulp Fiction: mi pregò di uscire dalla sala, era sconvolta, e io le tappavo gli occhi nelle scene forti (ride, ndr)!”.
Quanto il cinema ha influito nella sua formazione?
“In maniera totale. Il cinema mi ha insegnato a guardare il mondo. Mi ha fatto viaggiare, mi ha fatto conoscere culture diverse, modi di vivere lontani dal mio. Da adolescente ho scoperto il cinema iraniano, i Balcani, gli Stati Uniti, tutto attraverso lo schermo. Ricordo ancora quando vidi Zhang Yimou con la mia fidanzata di allora, che non aveva mai visto un film orientale. Quel film le cambiò la prospettiva. Il cinema ha avuto anche un ruolo educativo: mi ha insegnato l’amore, il desiderio, la famiglia, l’amicizia, il dolore”.
E quanto invece il suo privato ha influito nel tuo cinema?
“Tantissimo. Io ho un percorso atipico: ho fatto il geometra, ho lavorato nella musica, avevo un negozio di dischi. Il cinema è arrivato tardi, ma quando è arrivato, mi ha travolto. Ho vissuto quasi più dentro le storie che raccontavo che nella mia vita reale. Ho una famiglia, una figlia, ma il lavoro mi ha portato via tanto tempo, tante energie. Eppure, ogni storia che racconto ha dentro qualcosa di me. Non riesco a fare altrimenti”.
Tanti titoli di successo, soprattutto per la tv. Quando si è accorto di essere diventato “Luca Ribuoli”, il re Mida della serialità italiana?
“Non me ne sono mai accorto davvero. Ho sempre avuto il difetto di non fermarmi mai, di non celebrare mai i traguardi. Però a un certo punto cominci a vedere che i tuoi lavori vengono riconosciuti, che vinci premi, che ti chiamano per progetti importanti. Ma ogni volta è come se si ricominciasse da capo. Ogni serie, ogni film è una sfida nuova. Forse ho sentito davvero di avere trovato la mia voce con la serie La mafia uccide solo d’estate, poi con Speravo de morì prima e con Call My Agent. In quei progetti ero davvero me stesso”.
E con L’allieva, serie che ancora tutti ricordano e di cui si augurano sempre un seguito?
“L’allieva è stata una sfida. La protagonista, Alice, era molto lontana da me, per età, per carattere, per mondo. All’inizio ho faticato, ma poi ho letto i romanzi di Alessia Gazzola, e ho trovato una chiave. Era un progetto complicato, anche a livello produttivo, ma sono contento di averlo affrontato. Oggi forse sarebbe affidato a una regista donna, ma io credo che la sensibilità conti più delle etichette. Se sai ascoltare, puoi raccontare qualsiasi storia”.
Che tipo di storie la fanno sentire a suo agio?
“Quelle che parlano di umanità. Ho fatto commedie, drammi, adattamenti, biopic. Ma dove mi sento davvero a casa è quando c’è una verità nei rapporti umani. Una scena tra padre e figlia, un’amicizia che si rompe, un amore che finisce: lì posso dare il meglio. Mi interessa la realtà, anche quando è raccontata in forma poetica o ironica”.
Cosa si legge negli occhi di Luca Ribuoli dietro la macchina da presa?
“Che sono coinvolto fino in fondo. Non riesco a dirigere qualcosa se non mi tocca. Mi capita spesso di emozionarmi sul set. Cerco sempre di portare qualcosa in più, di andare oltre quello che c’è scritto. Per me il cinema è cercare. Sempre”.
Le sue storie hanno una forte attenzione al femminile. Perché?
“Forse perché ho avuto accanto donne importanti. Mia madre, le mie compagne, una professoressa che mi ha fatto scoprire il cinema. E poi sono cresciuto con autrici come Marguerite Yourcenar, Jane Campion. Il femminile mi incuriosisce, mi arricchisce, mi fa sentire vivo. E quando dirigo attrici, cerco sempre un dialogo profondo, uno scambio”.
Quanto è difficile confrontarsi con storie vere come quelle su Totti o Oriana Fallaci?
“È difficilissimo. Hai una responsabilità verso chi quelle persone le conosceva davvero. Con Totti, per esempio, ero terrorizzato. Non dormivo la notte prima di mostrargli la serie. Poi lui mi ha detto: “Mi sono riconosciuto”. E lì ho capito che avevamo fatto un buon lavoro. Se chi è coinvolto emotivamente si ritrova, allora anche il pubblico potrà crederci”.
Qual è stato il riscontro del pubblico che l’ha colpito di più?
“Con Call My Agent è stato pazzesco. Mi fermavano per strada, mi scrivevano. Ma anche con La mafia uccide solo d’estate ho ricevuto lettere, testimonianze. Una mamma mi ha detto che finalmente suo figlio capiva cos’era la mafia. Sono momenti che ti ripagano di tutto”.
C’è un progetto a cui è affezionato che pensa sia stato sottovalutato?
“Noi. È una serie che ho amato tantissimo, ma che non ha avuto il riscontro che speravo. Forse è andata in onda nel momento sbagliato, pochi giorni dopo lo scoppio della guerra. Ma per me resta uno dei progetti più intensi che ho fatto, con attori straordinari”.
GIUSEPPE CORALLO