Yvonne Sciò dagli spot e Non è la Rai alla regia, l'attacco al circoletto: "Decide chi può entrare e chi no"
Ha lasciato Non è la Rai, rifiutato i reality e girato da sola i suoi film da regista: Yvonne Sciò si riprende la scena, a modo suo, e attacca il "circoletto"
Attrice, modella, icona pop: Yvonne Sciò ha attraversato la cultura italiana degli ultimi quarant’anni con la leggerezza di chi non si è mai presa troppo sul serio, e l’ostinazione di chi non ha mai smesso di cercare il proprio posto. Dopo 57 film e serie, uno spot storico per la SIP (“Mi ami? Ma quanto mi ami?”), un passaggio fulmineo ma indelebile a Non è la Rai, oggi Yvonne Sciò è una regista affermata. Con Womeness, il suo terzo documentario, Yvonne Sciò torna a parlare di donne, libertà e memoria: cinque ritratti intensi che raccontano il coraggio, la cultura e la solitudine di chi ha cambiato il mondo, spesso senza clamore. Un po’ come lei, sempre mossa da quel desiderio di libertà che è stata la sua unica luce guida, anche oggi. L’intervista esclusiva a Virgilio Notizie.
Womeness è il suo terzo film da regista. Cosa l’ha spinta a raccontare queste cinque donne proprio adesso?
“Volevo raccontare storie italiane, storie di donne che hanno fatto questo Paese come Emma Bonino e Dacia Maraini. Donne che hanno cambiato le leggi, che hanno dato la vita per far progredire questa società. Penso che oggi, con tutto questo rumore del web, dei social, del dito che scrolla, abbiamo tutti una memoria molto corta. Ci dimentichiamo facilmente delle battaglie fatte, e invece è fondamentale continuare a parlarne, perché c’è ancora tanto da conquistare. Ancora oggi bisogna lottare per ottenere cose basilari. Era giusto, per me, ridare voce a queste donne”.
Dopo Seven Women, molto americano, voleva dunque riportare lo sguardo sull’Italia?
“Esatto. Seven Women è stato accolto benissimo, ma era percepito come molto americano. Io sono mezza americana, mia madre lo è, ma sono anche profondamente italiana, cresciuta a Roma. Ci sono aspetti di me che sono “terrona di Roma”, come dico sempre, e altri che sono internazionali, sono cresciuta in America. Stavolta volevo qualcosa che parlasse più di noi, delle nostre storie, della nostra memoria. Dacia Maraini per esempio rappresenta Roma, ma anche un mondo che non c’è più: quello di Pasolini, Moravia, Fellini, l’intellighenzia che si incontrava a piazza del Popolo. Io da bambina facevo la comparsa a Cinecittà, mangiavo al tavolo accanto a Fellini. Quel mondo l’ho vissuto”.
US Womeness
Ha detto che non volevi fare un film politico, pur trattando temi importanti.
“Sì, perché ci tengo a dirlo. Non volevo fare un film politico nel senso ideologico. Non è una bandiera. Volevo raccontare il vissuto di queste donne, il loro passato, quello delle loro madri e delle loro nonne. Raccontare la memoria affettiva e culturale che le ha formate. Anche perché una delle protagoniste, Setsuko Klossowska de Rola, non è femminista. Anzi, detesta quella parola. Mi ha detto: ‘Se mi avessi parlato di femminismo, questo film non lo avrei mai fatto’. Ma io sono furba (mi ha definito così!) e le ho detto che non gliel’avrei mai chiesto in quei termini. Perché volevo il suo punto di vista, che è diverso, ma necessario. Se tutte avessero la stessa opinione, che noia…”.
Un episodio in particolare che l’ha colpita?
“Sì. Quando morì il marito di Setsuko, il pittore Balthus, la andai a trovare in Svizzera. C’era ancora l’odore della sua pittura, come se lui fosse solo uscito a prendere un caffè. Lei mi disse: ‘Finalmente posso vivere la mia vita. Voglio ballare, andare alle feste’. All’inizio, con la mia formazione da italiana per cui il lutto è un tormento, mi sembrò orrendo, poi ho capito. Era un altro modo di vedere la vita, un’altra cultura. Quel momento mi ha insegnato molto, e l’ho voluto raccontare”.
US Womeness
Ha detto che ognuna di queste donne le ha insegnato qualcosa. Quali sono le donne che l’hanno formata personalmente?
“Mia nonna Yvonne, senza dubbio. Passavo molto tempo con lei in America. Mio bisnonno lavorava nel cinema muto, ha girato anche una versione del Titanic. Era socio di Kodak. Crescevo con storie di attrici, cinema, pionieri. E poi mia madre: musa di Slim Aarons (un mito della fotografia che da bambina mi ha ritratto molto spesso), un’artista vera. Loro due mi hanno insegnato tutto. E poi c’è Fran Drescher, la tata: una donna che si è scritta il suo successo, che ha avuto un’idea e ci ha creduto fino in fondo. Un modello di autodeterminazione che ha fatto sì che anch’io diventassi una self made woman”.
E sua figlia?
“Fondamentale. È la persona che mi riporta sempre con i piedi per terra. Quando fai questo mestiere, rischi di staccarti dalla realtà. Lei mi ricorda chi sono. Una volta, per la Festa del Papà, mi ha detto: ‘Mamma, oggi è la tua festa’. Sono andata in analisi per dieci anni dopo quella frase. Ho cresciuto mia figlia da sola, senza padre. Non è stato facile. Le dedico tutti i miei lavori. Lei mi dà la forza di affrontare le cose, anche la cattiveria. E voglio che sappia che deve farsi rispettare, che può essere libera”.
Come è passata dalla recitazione alla regia?
“Per necessità. Ero sola con mia figlia, avevo bisogno di lavorare. Mi offrivano solo reality. Ho ricevuto proposte per tutti: Grande Fratello, L’Isola dei famosi… Ma non volevo finire in quel contenitore. Avevo fatto film che non avrei voluto fare ma sentivo la voglia di dare voce alla mia voce. Il mio primo documentario, su Roxanne Lowit, l’ho girato da sola. Conoscevo i suoi archivi, le sue immagini, e ho raccontato quello che c’era dietro. Nessuno mi prendeva sul serio all’inizio. Ma sono andata avanti e ora ho anche la mia società di produzione, Magic Moments”.
Ha mai avuto la sensazione di non essere considerata?
“Tantissime volte. Soprattutto all’inizio. Non mi consideravano per il mio lavoro nella tv commerciale. Per Non è la Rai. Ero famosa per quello, anche se ci sono stata solo tre mesi. È pazzesco che ancora oggi la gente si ricordi di me per quello ma ho fatto così tante altre cose: è come se tutto il resto fosse invisibile. Però, Sky Arte e Istituto Luce Cinecittà hanno creduto in me, hanno visto il valore del mio lavoro. E ora con Womeness sono in concorso al Biografilm Festival, viaggio, faccio incontri. Ma ci sono voluti anni per realizzarlo: otto per la precisione, ho bisogno dei miei tempi. Ora sì, sono presa in considerazione”.
Pietro Coccia
Anche dal famoso circoletto?
“No, ha ragione Giuliana De Sio se il riferimento è quello. Ancora oggi c’è un problema di chiusura: il circoletto decide chi può entrare e chi no. Io non ci sono mai entrata, non ho mai fatto parte di quel gruppo. Non sono cresciuta dentro certi salotti, non ho mai avuto padrini né sponsor. E questa indipendenza l’ho pagata cara. Ma va bene così: ho sempre preferito camminare da sola piuttosto che piegarmi per ottenere qualcosa”.
Tre mesi quelli di Non è la Rai che tutti ricordano. Perché secondo lei?
“Me lo chiedo spesso anch’io. Sono andata via all’epoca perché mi annoiavo. Non c’era niente da fare. Ballavi, stavi lì, ti truccavano, aspettavi ore e poi tornavi a casa. Io avevo bisogno di stimoli, di movimento. Non sono mai stata capace di restare dove non mi sento accesa. E anche se quello show ha segnato un’epoca e mi ha dato visibilità, non era il mio posto. L’ho detto a Gianni Boncompagni: non sarei mai stata capace di farmi guidare da un auricolare. Dopo quell’esperienza sono stati tanti i progetti che mi hanno proposto ma io sentivo l’esigenza di seguire i miei ideali giovanili”.
Womeness è una parola che non esiste. Come è nata l’idea per il titolo?
“I titoli per i film vengono da soli. Successe lo stesso con Seven Women. Quando Rosita Missoni venne a vedere il film, mi disse che da bambina aveva sette finestre a casa sua. E le donne nel film erano sette. Era il titolo perfetto. Stavolta volevo parlare della donna, ma anche dell’essenza della donna: Womeness contiene tutto questo. In America un produttore mi ha detto: ‘Solo il titolo è geniale’. Speriamo non me lo copino (ride, ndr). Sono una che ci tiene. Non ho dubbi su queste cose: quando so che è giusto, vado dritta”.
Ha mai pensato di fare un film di finzione da regista?
“Sì, ci penso. Mi piacciono da morire gli attori. Ma ho troppo rispetto per la scrittura. Io sento le emozioni, le sensazioni. Scrivo bullet points, sogni. Ma non riesco a mettermi lì e scrivere una sceneggiatura. Però ho una storia che mi ronza in testa. Dovrei affidarmi a uno sceneggiatore. Ma so che lo farò”.
Yvonne Sciò, si sente felice oggi? O si accontenta della serenità?
“Oggi sono felice, sì. Perché finalmente mi riconoscono per quello che faccio, non per come appaio. Per anni sono stata giudicata per il mio aspetto fisico. Dicevano che ero rifatta, quando non lo sono. Ma sai, la gente parla. Il web è cattivo. Ora non me ne frega più niente. Mia figlia mi ha insegnato questo. E poi sì, ho dei vuoti. Tutti li abbiamo. Ma quei vuoti ti spingono a fare di più. Io parlo tanto, ma poi faccio yoga per un’ora e 45 in silenzio. Se non avessi quello, mi sarei buttata dalla finestra! I vuoti non sono solo negativi. Sono la molla. Sono un motore. Se impari a viverli, ti salvano”.
La sorte è più in debito o in credito con lei?
“In Womeless c’è un’intervista molto forte a una donna iraniana, la compositrice e cantante Sussan Deyhim, che parla di diritti, di libertà, di quello che significa vivere in un Paese dove le donne rischiano la vita anche solo per aver mostrato i capelli. È una testimonianza che mi ha toccato profondamente. Mi ha fatto sentire fortunata. Fortunata di poter parlare, di essere ascoltata, di avere una figlia che può uscire vestita come vuole senza rischiare la vita. Basta osservare tutti gli orrori intorno per capire quanto noi siamo fortunati”.
La libertà ha avuto un prezzo per lei?
“Altissimo. La libertà si paga. Sempre. La vita ti presenta il conto. Come il karma. Se sei libera, la paghi doppia. Come donna in Italia, ancora di più. Ma va bene così. La libertà per me è tutto. Anche quando pesa. Anche quando ti senti fuori posto. Se fossi stata più paracula, avrei fatto una carriera diversa. Ma poi non sarei andata in America, non avrei incontrato certe persone, vissuto certe esperienze. Tutto quello che racconto nei miei film, l’ho vissuto”.
Tornando indietro, rifarebbe tutto?
“Sì, ma con delle eccezioni. Soprattutto sul piano personale. Ho perso tempo con persone sbagliate. E ho fatto anche film brutti, diciamolo. Ma ho sempre scelto con l’istinto. E l’istinto mi ha portato qui. Forse sarei dovuta restare a Non è la Rai. Avrei fatto un sacco di soldi. Ma io non sono fatta così. Sono istintiva. Volevo essere libera. Ho fatto scelte magari sbagliate, ma erano le mie. E poi c’è quella foto di Tomaso Binga, una delle cinque donne da me intervistate per Womeness, che per me vuol dire molto: la donna nella gabbia. Io non ci voglio stare in gabbia. Nonostante qualche volta prenda il sopravvento la sindrome dell’impostore, del non sentirmi all’altezza (come quella volta con Brad Pitt, che forse nemmeno si ricorda di me), la libertà per me è tutto”.
Come si vede nel futuro?
“Non mi voglio fermare. La noia non mi appartiene. Voglio fare, creare, imparare. Studiare. Anche adesso vado all’università, quando posso, a seguire corsi di cinema. Ascolto, imparo. Voglio fare sempre di più. Spero di continuare così, con ancora più libertà e più strumenti. E, se posso, di trasformare le ombre in luce, come fanno gli artisti. Ma senza perdermi mai”.
