La cultura azteca continua a stupire con le sue scoperte archeologiche. Tra i reperti più particolari vi è il cosiddetto “flauto della morte“, uno strumento musicale tanto inquietante quanto affascinante, capace di emettere suoni simili a urla umane disperate. Recenti ricerche hanno rivelato che il suono prodotto da questo strumento non solo spaventa chi lo ascolta, ma potrebbe anche avere effetti specifici sul cervello umano, evocando emozioni intense e reazioni primordiali.
Cos’è il “flauto della morte” azteco usato contro i nemici
Il “flauto della morte”, o tlapitzalli, è uno strumento rituale scoperto per la prima volta in una tomba azteca negli anni ’90. A prima vista, si presenta come un piccolo oggetto in ceramica o ossa, spesso decorato con simboli legati alla morte e alla spiritualità. Tuttavia, ciò che lo rende straordinario è il suono che emette: un grido straziante che evoca paura e angoscia. Gli aztechi, maestri di simbolismo e ritualità, avrebbero usato questo strumento durante cerimonie religiose o battaglie, sfruttandone il potere psicologico contro i nemici.
Secondo alcuni studiosi, il flauto veniva impiegato per disorientare e terrorizzare gli avversari, creando un’atmosfera di panico sul campo di battaglia. Questo strumento richiama alla mente la vendetta di Montezuma, la “maledizione” che prende il nome dal sanguinario imperatore azteco e la sua furia contro i conquistadores spagnoli. Oltre alla guerra, il flauto era spesso utilizzato nei rituali funebri, per accompagnare i defunti nel regno dei morti e onorare le divinità legate alla morte, come Mictlantecuhtli.
Scoperti gli effetti sul cervello umano: incute terrore
Recenti studi hanno cercato di capire perché il suono del “flauto della morte” risulti così inquietante per chi lo ascolta. Una ricerca pubblicata su Nature ha analizzato le frequenze emesse da questi strumenti, scoprendo che il loro suono richiama in modo sorprendente il grido umano. La somiglianza attiva nel cervello umano aree associate alla paura e all’istinto di sopravvivenza, provocando reazioni emotive molto intense.
Gli esperimenti condotti con tecniche di neuroimaging hanno mostrato che il suono del flauto stimola l’amigdala, la parte del cervello responsabile delle risposte emotive. Quando ascoltiamo un urlo, il nostro cervello lo interpreta come un segnale di pericolo imminente. Questa reazione primordiale spiega perché il flauto della morte possa evocare terrore anche se non associato a un contesto visibile di minaccia.
Un ulteriore aspetto interessante è il possibile uso terapeutico di questo strumento. Alcuni ricercatori ipotizzano che gli aztechi non lo utilizzassero solo per spaventare, ma anche per scopi curativi, come l’induzione di stati alterati di coscienza nei rituali di guarigione. Questa dualità – terrore e cura – è emblematica della complessità della cultura azteca.
La riscoperta del “flauto della morte” e i suoi effetti sul cervello umano rappresentano un passo avanti nella comprensione della psicologia sonora e della neuroarcheologia. E, se da una parte il suo inquietante suono continua a suggestionare, dall’altra resta un simbolo potente della capacità umana di utilizzare l’arte e la musica per influenzare le emozioni e la mente. Una testimonianza del genio e del mistero di una civiltà ormai scomparsa, ma mai dimenticata.