Dazi di Trump basati su una tabella dai dati sbagliati, tutti gli errori del presidente: quali conseguenze
La tabella dei dazi presentata da Donald Trump contiene una serie di errori. Il principale, quello da cui nasce la guerra commerciale, è avere confuso l'Iva europea per un dazio
Donald Trump ha annunciato dazi “reciproci” contro una serie di Paesi del mondo, anche contro isole tropicali che non esportano praticamente nulla. I dazi entreranno in vigore in maniera scaglionata a partire dal 5 aprile, ma la tabella utilizzata dal presidente, è stato notato, contiene una serie di errori grossolani.
- Errore sulla tempistica
- Confusione sull'Iva
- Dati parziali sul disavanzo
- Dati inventati di sana pianta
- Le conseguenze dei dazi
Errore sulla tempistica
Il primo errore del presidente americano riguarda la tempistica: Trump ha inizialmente annunciato che i dazi sarebbero entrati in vigore dalla mezzanotte successiva alla conferenza stampa.
Lo staff della Casa Bianca ha successivamente dovuto correggere il tiro, annunciando che i dazi verranno applicati a partire da sabato 5 aprile (quelli al 10%) mentre la piena applicazione (quelli oltre il 10%) prenderà piede da mercoledì 9 aprile.
ANSA
Giardino delle rose della Casa Bianca (Washington, 2 aprile 2025): la tabella con i dazi di Donald Trump tenuta da Howard Lutnick, Segretario al Commercio Usa
Confusione sull’Iva
Trump ha confuso l’Iva europea con i dazi. Già nei giorni precedenti Trump aveva sostenuto che l’Iva fosse un dazio commerciale. Parte della sua retorica prende spunto da questa incomprensione.
I dazi sono imposte dirette sui beni importati mentre l’Iva è un’imposta applicata su tutti i beni che circolano in un Paese. La prima è una misura protezionistica, la seconda è una misura fiscale.
Dati parziali sul disavanzo
Trump ha introdotto i dazi a compensazione del disavanzo commerciale degli Stati Uniti con l’Unione europea, che ammonta a 236 miliardi di dollari nel 2024. In sintesi, gli Usa importano dall’Ue molto più di quanto l’Ue non importi dagli Usa, e dunque Trump ha deciso di riequilibrare la bilancia commerciale introducendo i dazi.
Si tratta, comunque, di un disavanzo di tipo economico. Trump non ha considerato che la bilancia è già parzialmente riequilibrata sotto il profilo finanziario, dal momento che gli investitori europei spendono in titoli Usa molto più di quanto gli investitori americani non spendano in azioni europee.
Dati inventati di sana pianta
Secondo Trump l’Unione europea impone dazi del 39% sulle merci americane. Si tratta di un’affermazione del tutto inventata.
La Commissione Ue spiega che considerando l’effettivo scambio di merci tra Ue e Usa, l’aliquota tariffaria media da entrambe le parti si aggira attorno all’1%.
Trump, invece, ha sommato le tariffe doganali europee con l’aliquota media dell’Iva europea che si aggira attorno al 22%, più altre tasse applicate in alcuni Paesi.
C’è poi un errore di tipo aritmetico: Trump aveva annunciato dazi pari alla metà di quelli subiti dagli Usa. Sostenendo che l’Ue imponga agli Usa dazi del 39%, avrebbe dovuto rispondere con dazi al 19,5% e non del 20%.
Le conseguenze dei dazi
La prima conseguenza dei dazi è stata quella di mandare in shock mercati e finanza, con la Borsa americana, e non solo, in picchiata subito dopo l’annuncio (Dow Jones -3,98%, Nasdaq -5,97%, Milano -3,6%).
Le previsioni di crescita globale sono state riviste al ribasso. La Federal Reserve ha ridotto le stime di crescita del Pil statunitense all’1,7%, rispetto al 2,1% precedentemente previsto, a causa delle incertezze legate alla guerra commerciale.
L’aumento dei dazi porterà a un incremento dei prezzi dei beni importati, contribuendo a spingere il tasso d’inflazione oltre il 4% negli Stati Uniti.
Tutto assolutamente previsto per Donald Trump, il quale ha annunciato che i dazi avrebbero da principio causato un crollo dei mercati, per poi generare una benefica risalita di tutti gli indici.
Un’altra conseguenza è un danno diretto alle aziende Usa, molte delle quali producono nel Sud Est asiatico (scarpe, abbigliamento sportivo, articoli per lo sport, eccetera…) e poi esportano negli Usa. Si pensi che il Vietnam è stato colpito da dazi al 46%. In quel surplus commerciale da 123,5 miliardi di dollari con gli Stati Uniti ci sono anche le scarpe Nike prodotte dall’azienda con sede centrale in Oregon.
C’è poi l’ipotesi che molti brand spostino parte della produzione negli Usa per aggirare i dazi. La mossa, però, necessiterebbe di mesi o anni per andare a regime. E nel frattempo la chiusura di stabilimenti nei Paesi colpiti dai dazi si tradurrebbe in un impoverimento del mercato del lavoro locale. In ogni caso, per i consumatori americani tutto questo si tradurrebbe in maggiori costi sugli scaffali dei negozi, considerati i maggiori costi per la manodopera.
Altra conseguenza è una più ampia apertura a trattare dei vari Paesi nei confronti degli Usa: del resto, Trump stesso non ha fatto mistero di avere introdotto i dazi anche come leva contrattuale.
Per quanto riguarda l’Europa, i dazi del 20% imposti hanno reso le esportazioni del Vecchio Continente meno competitive sul mercato statunitense.
In Italia i settori più penalizzati sono l’automobilistico e il manifatturiero. Si teme ora una contrazione del mercato, con pesanti ripercussioni su Pil e occupazione.
E mentre l’Ue sonda nuovi mercati per controbilanciare le perdite dovute ai dazi Usa, negli ambienti della politica e dell’economia comincia ad essere sussurrata una parola che fa paura: “Recessione“.
