Trump sospende i dazi, ma le Borse temono l'ennesimo colpo di scena: cosa rischiano le aziende italiane
Trump ha sospeso i dazi reciproci, ma le aziende italiane, e non solo, hanno ancora paura: cosa rischiano
La sospensione dei dazi annunciata da Donald Trump, che dovrebbe durare 90 giorni, darà tempo ai leader dei vari Paesi di trovare nuovi accordi. Nel frattempo, però, le aziende e i comparti industriali si interrogano sul futuro, visto che l’attuale amministrazione non sembra dispensare certezze granitiche. Le reazioni delle Borse internazionali hanno dimostrato i timori, eppure potrebbero esserci anche alcune opportunità da poter cogliere. L’intervista a Lucio Miranda, presidente di Export-USA.
- Il rimbalzo record delle Borse
- Le norme a favore: la First Safe Rule
- Cosa non è soggetto a dazi
- L'intervista a Lucio Miranda
Il rimbalzo record delle Borse
Dopo il dietrofront di Trump sui dazi, Wall Street ha chiuso in positivo, con due titoli su tutti in netta ripresa: Apple e Tesla.
Anche le Borse europee sono decollate il giorno dopo l’annuncio, come dimostrano i dati di giovedì 10 aprile.
Fonte foto: ANSA
Le norme a favore: la First Safe Rule
Ma cosa potrebbe accadere in caso di conferma o ritorno dei dazi oltre il 10% resta un interrogativo aperto, che porta a sondare altre strade, soprattutto per le aziende italiane esportatrici.
Secondo l’osservatorio di ExportUSA, società di consulenza che aiuta le imprese del Paese a entrare nel mercato americano, esistono alcune norme che possono rappresentare strumenti utili per sostenere le aziende in un momento delicato come quello attuale.
Tra queste c’è la First Sale Rule, una disposizione già nota nel contesto doganale statunitense: come spiegano gli esperti dell’Osservatorio, consente di calcolare i dazi doganali sul primo prezzo di vendita nella catena commerciale, ossia il più basso, e non sull’ultimo che invece viene pagato dal cliente americano.
Il beneficio sarebbe una riduzione del valore imponibile e, di conseguenza, anche del peso dei dazi.
La conseguenza, quindi, potrebbe essere un maggior vantaggio in termini di competitività per chi esporta negli Stati Uniti.
Cosa non è soggetto a dazi
Esiste, poi, un altro livello di valutazione che riguarda tutti quei servizi che non sono al momento soggetti a potenzi dazi.
Il riferimento è al digitale, come software e piattaforme. In questo caso, come per l’e-commerce dall’Italia verso gli Usa, si potrebbe mantenere un volume di scambi positivo per le aziende italiane, che potrebbero sfruttare il proprio know-how, soprattutto in termini di vantaggio rispetto all’altro competitor globale nel settore, che è rappresentato dalla Cina (al momento penalizzata dalla guerra economica con gli Stati Uniti).
L’intervista a Lucio Miranda
Che tipo di problema rappresentano i dazi per le aziende?
“Il problema dei dazi è che risultano come un aumento netto dei prezzi al consumatore. Quindi, in caso di dazio o addizionale del 20%, il prezzo del bene non crescerà del 20% al dettaglio (perché la tariffa si applica sul costo al momento dell’importazione, che è più basso), ma lungo la catena”.
Conteranno molto i passaggi intermedi?
“Sì. Ad oggi l’idea è che, in presenza di un aumento di dazi, tra il produttore-esportatore, l’importatore e il dettagliante o eventualmente il distributore, ci si suddivida più o meno una parte del dazio, in maniera tale da non farlo ricadere totalmente sulle spalle del consumatore o dell’acquirente finale. Conteranno, molto, quindi i rapporti intermedi e con le istituzioni”.
Questo tipo di riflessione vale per tutti i prodotti soggetti eventualmente a dazi?
“In realtà no, perché ce ne sono alcuni che non hanno sostituti o che ne hanno ma a un costo maggiore e a questo punto potrebbe esserci chi si avvantaggia dell’aumento dei prezzi finali e, invece, si trova in una condizione più competitiva”.
Esistono dati che possano dare l’idea dell’eventuale danno economico dei dazi, per quanto riguarda l’export italiano?
“Non ci sono dati precisi in termini di possibile perdita di vendita o fatturato. Tutto dipenderà dall’elasticità della domanda riguardo al prezzo. Per la moda e in genere dell’abbigliamento, alcuni studi indicano un valore di 1,3 o 1,4; per il formaggio si oscillerebbe tra 0,7 e 1,2, quindi non ci sono numeri univoci. Potremmo dire che su formaggi e alimentari si parlerebbe di un 5,7%, ma molto dipenderà o dipenderebbe dal valore esatto del dazio finale che potrebbe essere deciso”.
Ci sono norme che permettono di attenuarne la portata per chi esporta negli Usa?
“In realtà ci sono tre tecniche doganali di importazioni, che noi utilizziamo per i nostri clienti, perché permettono di calcolare il dazio non sul prezzo all’importazione, ma su uno più basso. First Safe Rule si applica quando l’esportatore non è il produttore, quindi acquista da terzi e poi svolge l’attività di branding, logistica, trasporti, marketing, ecc. L’esportatore, quindi, quando arriva in dogana invece di calcolare il prezzo all’importazione, lo può calcolare sul prezzo che lui ha pagato al fornitore per acquistare il bene che poi sarà esportato. È una regola utile, anche se necessita di una pratica che permetta di sfruttarla. Ma non è l’unico strumento utile”.
Quali sono gli altri?
“Per esempio, se non si comprano i prodotti da terzi, ma si realizzano internamente, si utilizza un’altra tecnica doganale, che può essere conveniente in quei settori che tipicamente hanno un alto dazio all’ingresso negli Usa: è il caso della cosmetica, le calzature, l’abbigliamento e gli accessori moda. Poi c’è anche una terza opportunità, che è più adatta a chi produce macchinari e beni industriali ad alto contenuto tecnologico. Anche in questo caso si può ridurre di molto l’impatto del dazio, riducendo il prezzo sul quale di calcola la tariffa doganale in ingresso negli Usa”.
Quali sono i settori italiani potenzialmente più a rischio e come attenuare le conseguenze negative?
“Invece che parlare di settori, parlerei di tipologie di prodotti più a rischio: sono quelle a basso valore aggiunto, indistinte e con prodotti sostitutivi Made in USA prontamente disponibili. Da questo punto di vista, però, non dovrebbero esserci grossi problemi per l’Italia, perché i nostri prodotti hanno in genere un elevato livello di differenziazione e di originalità, e quindi mi sento di dire che dovremmo avere un grado di protezione maggiore rispetto ad altri Paese e altri prodotti che hanno un’altra vocazione industriale e produttiva”.
E per quel che riguarda il digitale?
“Tutto ciò che rientra nella sfera dei servizi in generale e in quelli digitali in particolare, proprio come software e piattaforme, non è appunto soggetto a dazi. Questo rende ancora più strategico per molte imprese italiane puntare sulla valorizzazione del proprio know-how immateriale. Quanto all’e-commerce dall’Italia verso gli USA, consideriamo che gli ordini con valore inferiore a 800 dollari sono esenti da dazi. Questi volumi rappresentano un’opportunità, considerando che questa agevolazione non si applica più alla Cina, che oggi vede colpito anche l’e-commerce di basso valore (anche solo 5 dollari, ad esempio).
Quali altre possibilità ci sono per le aziende che producono beni materiali?
“Una mossa strategica oggi potrebbe essere quella di costituire una società negli Stati Uniti, in forma consortile tra più aziende dello stesso settore. Questa società agirebbe da importatore-distributore diretto, evitando il tradizionale ricarico del 30-35% applicato dai distributori terzi. In pratica, diventi l’importatore e il distributore di te stesso. Con tutti i vantaggi in termini di margini, controllo e rapidità di accesso al mercato che questo comporta”.
Quindi le opportunità potrebbero non mancare, nonostante il momento delicato?
“Esatto. È il momento di muoversi con visione, coraggio e competenze internazionali. Non dimentichiamo che le ultime dichiarazioni del Presidente americano ha ufficialmente aperto i negoziati. Non è un punto di arrivo, ma un punto di partenza per avviare trattative bilaterali con visione e apertura reciproca”.
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