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CURIOSITÀ 04 GIUGNO 2025

La guerra fa proliferare i batteri killer lo studio italiano

Christian Casale

Christian Casale

Giornalista e videomaker

Conduttore e giornalista con lunga esperienza in radio e televisione in ambito nazionale. Per professione e passione mi occupo di videomaking, con una particolare propensione alla post produzione. Amo la divulgazione e lo sport.

Quando si pensa agli effetti devastanti delle guerre, si pensa immediatamente alla distruzione delle città, alle vite spezzate e agli sfollamenti di massa. Ma c’è un nemico silenzioso, una minaccia invisibile che cresce parallelamente ai conflitti stessi. Un nemico a cui mai si penserebbe, o che potrebbe essere tranquillamente sottovalutato.

Nuove ricerche mostrano un collegamento allarmante tra le guerre moderne e la diffusione accelerata di batteri capaci di vanificare i progressi della medicina. Un fenomeno così pericoloso, che rischia di diventare la prossima emergenza sanitaria globale.

Emergenza super-batteri con le guerre moderne

Le guerre moderne portano con sé immagini strazianti fatte di distruzione e morte. Basti pensare a cosa accade in Ucraina dal febbraio 2022 o, più di recente, in Palestina, con l’affondo di Israele nei confronti di Hamas.

Come se non bastasse, creano anche un’altra importante emergenza, legata ai super-batteri. I confitti spianano la strada alle condizioni ideali per la proliferazione di batteri resistenti agli antibiotici, noti anche come “batteri killer”. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), questa minaccia sanitaria è tra le più gravi del nostro tempo. Nel solo 2019, circa 1,2 milioni di persone sono morte a causa di infezioni resistenti ai farmaci.

I conflitti armati generano caos nei sistemi sanitari, interrompendo cure essenziali, rendendo difficoltoso il monitoraggio delle infezioni e provocando l’uso scorretto di antibiotici. Ospedali improvvisati, scarse condizioni igieniche e un accesso limitato a laboratori di analisi creano un ambiente perfetto per la diffusione di ceppi batterici resistenti, spesso trasmessi da paziente a paziente in modo incontrollato.

Un recente studio, condotto su pazienti feriti in zone di guerra, ha evidenziato come molte delle infezioni gravi riportate non siano solo difficili da trattare, ma anche completamente resistenti agli antibiotici disponibili. In Siria, ad esempio, sono stati isolati ceppi di Klebsiella pneumoniae e Acinetobacter baumannii che resistono a tutti i trattamenti conosciuti.

Questi batteri non si fermano ai confini del conflitto e generano emergenze anche dopo che la guerra è giunta a conclusione, seguendo i flussi migratori, gli sfollati, i militari feriti, e diffondendosi anche negli ospedali di tutto il mondo.

Quando le guerre diventano vettori biologici

La resistenza antimicrobica non conosce confini, soprattutto in un mondo sempre più interconnesso. I batteri killer si muovono rapidamente da un continente all’altro, viaggiando insieme ai profughi o ai feriti evacuati dalle zone di conflitto, divenendo vettori biologici. È quanto accaduto in più di un’occasione in Europa, dove sono stati rilevati ceppi multiresistenti in pazienti provenienti da aree di guerra, tra cui Afghanistan, Siria, Ucraina e Gaza.

A preoccupare gli esperti non è solo la trasmissione tra persone, ma anche l’ambiente stesso. I campi di battaglia, spesso contaminati da sangue, resti biologici e scarse pratiche igieniche, diventano vere e proprie incubatrici batteriche. L’uso non regolamentato di antibiotici in contesti bellici, inoltre, accelera il fenomeno della selezione naturale, favorendo la sopravvivenza dei batteri più resistenti.

La comunità scientifica ha già lanciato l’allarme: la guerra contribuisce alla diffusione di questi patogeni invisibili che rischiano di provocare più morti della stessa violenza bellica. Se oggi la guerra uccide con le armi, domani potrebbe farlo attraverso infezioni incurabili.

Lo studio dello Spallanzani prova il legame

Un’indagine condotta dall’Istituto Spallanzani di Roma ha fornito un ulteriore riscontro al legame tra conflitti armati e diffusione dei super-batteri. Analizzando campioni provenienti da feriti di guerra, i ricercatori hanno riscontrato una presenza significativa di ceppi multiresistenti in pazienti provenienti da zone di conflitto, in particolare Siria e Ucraina. Lo studio ha confermato che l’ambiente bellico, unito alla scarsità di risorse mediche e all’uso incontrollato di antibiotici, crea un terreno fertile per la selezione e la circolazione di batteri potenzialmente letali.

Secondo gli esperti intervenire tempestivamente in questi contesti non è solo una questione di sanità, ma anche di sicurezza sanitaria globale.

Cosa si può fare: prevenzione, monitoraggio e responsabilità

Di fronte a questa minaccia, servono risposte coordinate e urgenti, comunque non semplici da mettere in atto. Gli esperti chiedono responsabilità e che la resistenza antimicrobica venga trattata come una questione di sicurezza globale, al pari del terrorismo o del traffico di armi. È necessario rafforzare i sistemi di monitoraggio in tutte le zone di crisi, garantire l’accesso a laboratori diagnostici anche nei campi profughi e limitare l’uso indiscriminato di antibiotici.

Anche i Paesi che ospitano rifugiati o evacuati devono adottare protocolli sanitari rigorosi per identificare e isolare rapidamente eventuali infezioni resistenti. Investire nella ricerca di nuovi antibiotici e sviluppare terapie alternative, come i batteriofagi o i vaccini, diventa cruciale per prepararsi al meglio.

In un mondo dove le guerre sono sempre più frequenti e i sistemi sanitari fragili, la lotta contro i batteri killer non è più solo una questione medica, ma anche politica e sociale. Perché, come ci insegna questa emergenza silenziosa, a volte il nemico più pericoloso è quello che non si vede.

La guerra fa proliferare i batteri killer lo studio italiano
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