Enduro monocilindriche degli anni ‘80: le regine del fuoristrada

Gli anni Ottanta sono stati un'epoca d'oro per gli amanti delle moto da enduro monocilindriche, con l'approdo di diverse stelle di prima grandezza sul mercato

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Manuel Magarini

Giornalista automotive

Classe 90, ha una laurea in Economia Aziendale, ma un unico amore: la scrittura. Da oltre dieci anni si occupa di motori, in ogni loro sfaccettatura.

Gli anni Ottanta sono stati un periodo magico per le moto da enduro, in particolare quelle monocilindriche. Piacevoli da ammirare e robuste, hanno conquistato il cuore di diversi fan delle due ruote, assurgendo a simbolo di un’epoca. Andava incontro ai gusti e alle esigenze della platea di biker, desiderosi di solcare lande inesplorate in sella alla propria “bambina”. Durante la settimana garantivano delle ottime prestazioni nello scenario urbano e anche nelle escursioni fuori porta sapevano destreggiarsia meraviglia . Tra questi, alcuni esemplari si sono saputi ritagliare un posto nel mito grazie alla loro meccanica e affidabilità.

Dalla Yamaha XT 500 alla XT 600 Z Ténéré

Introdotta nel 1975, la Yamaha XT 500 confermò le qualità progettuali delle aziende giapponesi. A differenza delle connazionali, il marchio nipponico ebbe il merito di capire e accettare l’evolversi dei tempi. Anziché insistere solo su formule già rodate, abbracciò il cambiamento e fu ricompensato. Il propulsore monocilindrico da 500cc era potente e affidabile, adatto ad affrontare delle lunghe escursioni nei percorsi off-road. Con il passare del tempo, la XT 500 ha ottenuto rilievo nel settore e capita di sentire ancora oggi chi ne rimpiange la meccanica e la robustezza. A suon di generose offerte, collezionisti e appassionati se le contendono oggi.

Il vero salto di livello da parte di Yamaha nell’enduro avvenne, però, nel 1982, l’anno di debutto della XT 600 Z Ténéré, l’enduro da leggenda che conquistò il deserto. Alimentata da un monocilindrico da 595 cc da 43 CV, aveva un celebre serbatoio dalla forma sferica, il suo “segreto” nella capacità di percorrere lunghe distanze senza ripetute soste a fare rifornimento. In confronto ai predecessori era ben più avanzata, con un forcellone in alluminio e una sospensione posteriore progressiva Motocross. Inoltre, aveva un freno a disco anteriore, in rottura col solito tamburo. Nonostante non abbia mai vinto la Dakar, conserva un posto d’élite nel panorama motociclistico. La combinazione di performance solide, versatilità e affidabilità le conferì slancio in termini commerciali, una gallina dalle uovo d’oro, sfruttate dai tecnici nelle creazioni future. Benché la moderna Ténéré 700 abbia raddoppiato la potenza e i cilindri, l’essenza è rimasta immutata.

Kawasaki KLR 650, gioiello da fini intenditori

Correvano gli anni Ottanta anche al lancio della Honda XL 600 R. In ritardo rispetto a Yamaha, i vertici della compagnia adottarono un approccio moderno. Perché gli anni passano, le mode pure e ignorare la svolta avvenuta avrebbe significato negarsi sul nascere una rilevante fetta di acquirenti. Il sodalizio tra i dipartimenti della Casa si tradusse in un mezzo duttile come pochi al mondo, capace di destreggiarsi ovunque andasse. Nelle grazie di tanti fan ci è entrata soprattutto per il look aggressivo, manifesto di una forte personalità, e l’unità monocilindrica da 600cc.

Quando i segni del cambiamento erano già emersi nel comparto motociclistico, venne il turno della Kawasaki KLR 650, l’ennesimo gioiello da fini intenditori. Da bolidi simili il Costruttore ha definito la propria legacy, che continua fino ai giorni nostri. Approdò nel 1987, a raccogliere il testimone della KLR 600, presentata appena tre anni prima. Il monocilindrico DOHC a 4 volte raffreddato a liquido, forte di un’alimentazione gestita da un carburatore Keihlin, aveva una trasmissione a 5 marce e un freno a disco anteriore. Parecchio per l’epoca e così scalò le gerarchie al punto da imporsi contro realtà agguerrite. Poi, piombò un lunghissimo fermo negli aggiornamenti, sintomatico circa le qualità intrinseche della moto e la sua popolarità. Compiuto un primo aggiornamento nel 2008, è tornata in Europa due anni fa, con un’estetica fedele al modello del passato, ma rinnovato sotto vari aspetti.

Una traccia indelebile l’ha lasciata pure la DR 600. Prodotta da Suzuki dal 1985 al 1990, combinava le proprietà di una stradale a quella di una off-road. Di conseguenza, riusciva a destreggiarsi ovunque, sia in città sia nei tratti più insidiosi. Il cuore pulsante era un monocilindrico da 589 cc, in grado di sviluppare una potenza di 32 kW, pari a 43,5 CV. Unito a un telaio leggere e maneggevole, era sempre all’altezza delle aspettative. Il sedile, ampio e comodo, era adatto anche nei lunghi viaggi e la riparazione era facile, al punto che buona parte erano eseguibili in autonomia, invece di recarsi in officina, con ovvio risparmio  economico.

Le italiane

E le italiane? Non rimasero ferme. Introdotta nel 1987, durò quattro anni la Cagiva T4-500, “tuttotreno” successiva all’Ala Rossa 350, ma con alcune rilevanti modifiche. Dotata di un quattro tempi di 500 cm³, era in realtà una versione maggiorata dell’unità della sorella minore, la T4-350. L’incremento di cilindrata venne ottenuto aumentando l’alesaggio da 82 a 94 mm. Uscì in diverse interpretazioni, tra cui la “E” (Enduro), la “R” (Racing) e la “M” (militare), differenziate principalmente nella ciclistica e nell’avviamento. Ad esempio, la “E” aveva un avviamento sia a pedale che elettrico, mentre la “R” contava un ammortizzatore posteriore pluriregolabile e un avviamento esclusivamente a pedale. Dal peso di 140 kg, la Cagiva T4-500 generava una potenza di 40 CV a 7.000 rpm.

A metà degli anni Ottanta pure Aprilia diede con la Tuareg una personale interpretazione delle enduro monocilindriche. Offerta con un motore a due tempi con cilindrate di 50 e 125 cc e uno a quattro tempi da 350 e 600 cc, ebbe pure un’edizione Rally da 50, 125 e 250 cc. Per passare dalla velocità massima a una completa fermata, si affidava a un singolo disco frenante montato sulla ruota anteriore e a un freno a tamburo ubicato sulla ruota posteriore, in maniera da beneficiare di una potenza di arresto ottimale.

Giapponese di “passaporto”, ma italiana di adozione, la Honda NX 650 Dominator fu tenuta a battesimo nel 1987 a Taormina e le vendite in Italia presero il via nel febbraio successivo. Ebbe una carriera abbastanza lunga, lunga 14 anni, in cui mantenne il propulsore monocilindrico da 644 cm³ di cilindrata. Raffreddato ad aria, con distribuzione monoalbero in testa comandato da catena con quattro valvole radiali, erogava 39 CV a 6.400 giri al minuto e una coppia di 4,7 kgm a 5.250 giri/min. Eclettica oltre ogni limite, la maneggevolezza della NX 650 Dominator dipendeva da una commistione di fattori: il telaio robusto, la forcella telescopica anteriore, il monoammortizzatore posteriore e i freni a disco, anteriori e posteriori. Dei requisiti che le valsero una poltrona in prima classe tra le enduro monocilindriche di allora.