Ci sono delitti che finiscono per essere dimenticati e altri che restano impressi nella memoria collettiva. Tra questi c’è quello di Tranquillo Allevi, noto come il delitto del bitter. È una vicenda che sembra uscita da un film, ma che invece accadde davvero, in un pomeriggio d’estate del 1962, ad Arma di Taggia, in Liguria. Una bottiglia di bitter, un pacco anonimo e una vendetta nata da una passione proibita: questi gli ingredienti di una storia che scosse l’Italia, lasciando dietro di sé dolore, indignazione e un modo di dire ancora oggi usato con ironia amara.
Il delitto del bitter e la morte di Tranquillo Allevi
Tranquillo Allevi era un commerciante di formaggi, un uomo perbene, riservato e dedito alla famiglia. Viveva tra le province di Novara e Imperia con la moglie Renata Lualdi e i loro due figli. A turbare quella che all’apparenza sembrava una vita tranquilla fu però la scoperta di una relazione extraconiugale tra Renata e Renzo Ferrari, un veterinario di buona reputazione ma dal carattere impulsivo. Le voci correvano veloci nei piccoli paesi, e Tranquillo, dopo averli sorpresi più volte, cercò comunque di salvare il matrimonio trasferendosi con la famiglia ad Arma di Taggia. Ma la nuova città non bastò a spegnere quella passione clandestina.
Ferrari, accecato dalla gelosia e dal desiderio di possedere Renata, arrivò a proporre a Tranquillo una soluzione tanto assurda quanto offensiva: quattro milioni di lire in cambio della moglie. Un’offerta che il commerciante rifiutò indignato, ma che segnò, di fatto, l’inizio della sua fine.
Pochi giorni dopo, il 24 agosto 1962, a casa Allevi arrivò un pacco postale. Il mittente si spacciava per un’importante azienda di bevande che proponeva una possibile collaborazione commerciale. Dentro, una bottiglia di bitter e una lettera d’accompagnamento. Tranquillo, ignaro di tutto, accolse la novità con entusiasmo e invitò due amici per assaggiare insieme la bevanda. Bastò un sorso perché la festa si trasformasse in tragedia: il sapore era amarissimo, i dolori allo stomaco lancinanti. Portati d’urgenza in ospedale, i due amici si salvarono grazie a una lavanda gastrica. Tranquillo, invece, morì avvelenato dalla stricnina contenuta nella bottiglia di bitter.
Le indagini non lasciarono spazio a molti dubbi. Tutti gli indizi portavano a Renzo Ferrari: la bottiglia spedita da Milano, la macchina da scrivere usata per la lettera, l’acquisto della stricnina in farmacia con la scusa di dover curare animali. Nel 1964 il veterinario venne processato e condannato a trent’anni di carcere, pena poi commutata in ergastolo dalla Corte d’Assise d’Appello di Genova. Uscì solo nel 1986, grazie alla grazia concessa dal presidente Francesco Cossiga, e morì due anni dopo, nel 1988.
“Tranquillo ha fatto una brutta fine”: l’impatto culturale
Il delitto del bitter non fu solo un episodio di cronaca nera: divenne un caso di costume, uno specchio delle passioni e delle ipocrisie dell’Italia degli anni Sessanta. La vicenda colpì profondamente l’immaginario collettivo, trasformando la figura di Tranquillo Allevi in un simbolo tragico della gelosia e della vendetta.
A Roma e in altre parti d’Italia, nel linguaggio popolare cominciò a circolare l’espressione “Tranquillo ha fatto una brutta fine” usata per commentare situazioni sfortunate o per prendere con leggerezza un destino avverso.
Oggi, più di sessant’anni dopo, il “delitto del bitter” resta un monito contro l’ossessione e la vendetta, di altri casi di cronaca come quello del mostro di Firenze ma anche un curioso frammento di cultura popolare. Non a caso dietro a ogni modo di dire c’è sempre una storia vera.






















