Perché gli hacker si chiamano così? Per molti sono “topi di biblioteca” tecnologici, chiusi al buio davanti al pc alla ricerca di una chiave per entrare nella nostra vita informatica. In realtà gli hacker non sono i sociopatici che la maggior parte delle persone immagina. Ma perché si chiamano così? Il sostantivo viene dal verbo “to hack” ovvero “tagliare, zappare, spezzare”. L’hacking è un modo per aprirsi un varco tra le linee di codice di un sistema informatico, un sistema per ottenere un risultato veloce, spesso rozzo ma efficace. Prima che fosse riferita al mondo dell’informatica, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, e ben prima che nei dormitori universitari fosse riservata ai più bravi programmatori, la parola hacker indicava i boscaioli del Canada, i giornalisti da strapazzo in Inghilterra e i contadini zappatori del Midwest americano; nei college statunitensi, poi, hacker è stato l’epiteto riservato a chi combinava guai e scherzi goliardici. Sul sito della Polizia postale italiana si trovano interessanti approfondimenti sulla figura dell’hacker. In particolare si ricorda che “il New Hacker´s Dictionary di Eric S. Raymond definisce un hacker come qualcuno che ama esplorare le possibilità offerte da un sistema informativo e mettere alla prova le sue capacità, in contrapposizione con la maggior parte degli utenti che preferisce apprendere solo lo stretto indispensabile. Questo è, ovviamente, il concetto di hacker espresso con un valore positivo. Vi è tuttavia da segnalare che, dell´intento puramente ludico che spingeva i primi hacker ad agire, poco è rimasto.” E ancora: “si usa distinguere tra la figura dell´hacker e quella del cracker. I cracker sono coloro che fanno attività di hacking a scopo di lucro. Entrambe le figure, per la legge italiana, sono punibili”. Va detto che esistono anche cracker etici e molti hacker che, lavorando per migliorare software aziendali, ne riparano eventuali difetti rendendo le reti di comunicazione decisamente più affidabili.