Damiano Gavino, attore di Un Professore 3: "Mostrarsi vulnerabili non è debolezza, ma il primo atto d'amore"

Crescita, relazioni, identità: l'intervista all'attore di Un Professore 3

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Ci sono attori che, intervistati, si raccontano per dovere e poi c’è chi, come Damiano Gavino, trasforma una conversazione in un vero esercizio di consapevolezza. Quando parla, lo fa scegliendo ogni parola con cura, ma senza perdere quella spontaneità che rende tutto profondamente umano. Non costruisce una versione ideale di sé, né rifugge le contraddizioni: le abita. Le osserva, le accetta. Le trasforma in pensiero. In questa lunga intervista esclusiva per Virgilio Notizie, mentre su Rai 1 continua ad andare in onda con successo il giovedì sera la serie Un professore 3, Damiano Gavino apre una finestra su temi che raramente trovano spazio nel racconto pubblico degli attori della sua generazione: la fragilità emotiva, il senso di annullamento nelle prime relazioni, il valore dell’educazione affettiva, la paternità come orizzonte lontano e insieme intimo, il bisogno di proteggere la propria parte infantile. Non c’è alcuna posa in ciò che dice. C’è il tempo della riflessione, il dubbio, la sincerità disarmata. Ne emerge il ritratto di un artista giovane ma già consapevole, capace di parlare di gelosia senza retorica e di salute mentale senza slogan. Un ragazzo che suona per non esplodere, che ricorda i Natali dell’infanzia con tenerezza, che non ha paura di ammettere le proprie paure, anzi: ne fa un punto di partenza. E che, con intelligenza rara, rifiuta l’idea che vulnerabilità e debolezza siano sinonimi. Damiano Gavino non vuole essere un personaggio. Preferisce restare una persona. E questa, oggi, è forse la scelta più radicale e potente che un giovane attore possa fare.

All’inizio di Un professore 3, Manuel sembra più sereno del solito, ma poi viene travolto da abbandoni e scelte difficili. Cosa lo ha toccato di più nell’interpretarlo questa volta?

Quello che mi ha colpito di più, e che forse è anche la cosa più dolorosa, è che Manuel, pur essendo in un momento iniziale di apparente serenità, continua a mettere gli altri (soprattutto le persone che ama) prima di sé. Non so se chiamarlo errore, forse non è nemmeno giusto definirlo così, ma di certo è una scelta che può diventare pericolosa, specialmente alla sua età. Quando ti annulli per amore, quando ti ritrovi a vivere situazioni più grandi di te per il bene degli altri, spesso finisci per non avere gli strumenti per gestirle davvero. A quell’età non pensi che possa esserci una fregatura dietro l’angolo. Vedi solo il ‘palco’, la parte bella. Ma dietro le quinte, metaforicamente parlando, ci sono spesso delle complicazioni che non metti in conto, anche perché magari non ci hai mai fatto i conti prima. E questo per Manuel è ancora più evidente, perché parliamo di un ragazzo di diciannove anni che, però, ha già un vissuto molto forte. Ha portato dentro di sé dei fardelli enormi, da cui piano piano si è liberato… ma non del tutto. La sua serenità, che all’inizio della stagione sembra conquistata, viene intaccata proprio da quel mettersi sempre all’ultimo posto. Il viaggio che fa, la decisione di partire, per me rappresenta un punto di svolta: è come se per la prima volta o, forse, per la prima volta dopo tanto tempo Manuel decidesse finalmente di mettere se stesso al centro, prima degli altri. C’è una battuta che a me ha colpito tantissimo, perché può sembrare leggera, persino comica, ma in realtà è molto profonda: quando si congeda da Simone dice, ‘Se resto qua faccio un’altra delle mie cazzate’. Ecco, in quel caso non sta parlando di litigi o di qualcosa di impulsivo. Sta dicendo che, se resta, rischia di continuare ad annullarsi, a perdersi nel dolore. E il dolore, quando lo hai sempre davanti agli occhi, è difficile da superare. Quando invece te ne allontani, riesci a ragionare, a lavorare su te stesso, a darti il tempo per guarire. Quando poi quel dolore lo rivedi, magari sei già più forte, magari è già cicatrizzato”.

Ha mai vissuto anche lei, nella sua vita personale, una situazione simile? Le è capitato di diventare un punto di riferimento per qualcuno fino al punto di dimenticarti di se stesso?

“Sì, mi è capitato, soprattutto nelle primissime relazioni. Quelle in cui sei proprio impreparato. Nessuno nasce imparato, si dice, ed è vero. In quelle relazioni, anche per inesperienza, tendevo a mettere l’altra persona, o le persone che amavo, davanti a me. Non era tanto per amore in senso romantico, quanto per natura, per istinto. Da questo punto di vista, in effetti, mi sento molto simile a Manuel. Però, col tempo ho imparato che non è sempre sano. Oggi non lo faccio più. Ho capito (può sembrare egoista, ma non lo è affatto) che a volte bisogna davvero mettere se stessi al primo posto. Perché è giusto. Perché è necessario. Oggi si parla molto di salute mentale, ed è sacrosanto farlo. Ma per stare bene mentalmente, e con le persone intorno, bisogna prima stare bene con se stessi. Dobbiamo trovare un equilibrio nostro, interiore, che ci permetta poi di vivere con serenità anche i rapporti con gli altri. Altrimenti finiamo per trasmettere agli altri solo le nostre insicurezze, le nostre paure, le nostre incertezze”.

Ha accennato all’importanza dell’equilibrio nei rapporti. Oggi si parla molto di educazione sessuale e affettiva. Lei da chi hai ricevuto la sua educazione ai sentimenti, ai legami?

“Mi hanno fatto spesso questa domanda, anche in riferimento al fatto se penso che l’educazione sessuale e affettiva dovrebbe essere introdotta il prima possibile nelle scuole. E la mia risposta è sempre sì, sono assolutamente d’accordo. Io, poi, ho avuto una mamma che era maestra, quindi questo sicuramente ha influito. Al di là del suo ruolo materno, che già di per sé è un punto di riferimento, mia madre, proprio perché insegnante, sapeva come parlare ai bambini, come introdurre certi argomenti in modo naturale. Non ricordo con precisione i momenti esatti, ma so che crescendo avevo ben presenti alcune cose, proprio grazie a quello che mi avevano trasmesso i miei genitori. Quello che un po’ mi dispiace è che a scuola, invece, non ricordo nessun tipo di insegnamento a riguardo. E penso sia un’occasione persa, perché certe cose sarebbe bello condividerle anche con i coetanei. Quando ti viene spiegata una cosa a casa, sei da solo. E anche se la comprendi, non sei nella posizione di poterla spiegare ad altri, non hai ancora fatto l’esperienza diretta. Ma se quella stessa cosa ti viene spiegata in classe, insieme agli altri, si crea automaticamente un senso di condivisione, un’educazione collettiva. C’è più armonia, più confronto. E secondo me è proprio quello che serve: parlare di questi temi in gruppo, non lasciare che restino tabù. Se la maestra o l’insegnante ne parla a tutti, allora lo senti come un insegnamento vero, importante. Se invece lo senti solo a casa, è bellissimo, sì, ma resta un qualcosa di tuo, che non ha lo stesso peso all’interno di un contesto sociale più ampio”.

Ed è anche tramite il confronto che si impara il rispetto. Quando ci approcciamo alle prime relazioni, soprattutto da adolescenti, è proprio parlandone con gli altri che impariamo cosa significa amare, ascoltare, accettare.

“Sì, esattamente. Ed è proprio tramite il confronto che impariamo anche come affrontare certi discorsi, come parlarne con gli altri senza farli sentire a disagio. Perché ci sono argomenti, come questi, che ancora oggi si affrontano con una certa cautela, quasi in punta di piedi. Se invece hai avuto un’educazione affettiva condivisa, impari anche a trattare questi temi con naturalezza, delicatezza, rispetto. E questa, secondo me, è la chiave. Se ci abituiamo sin da piccoli a confrontarci, a non vergognarci, allora diventa tutto più semplice. Perché non è solo una questione di sapere le cose, ma di saperle comunicare, vivere e trasmettere agli altri nel modo giusto”.

damiano gavinoUS LORELLA DI CARLO

Nell’ultima puntata di Un Professore 3, è apparsa sul muro una scritta proprio dietro Gassman. Sul web ha scatenato un piccolo vespaio. Cosa ci sa dire: era voluta o un errore?

“Questa è carina. Guardi, le dico la verità: su quel muro c’è scritto davvero di tutto. Da quando è andata in onda la prima stagione, sono comparsi messaggi di ogni tipo: è bello che i ragazzi si incontrino lì come uno dei posti simbolo della serie”.

In questa stagione della serie, affronta anche, in modo diretto o indiretto, il tema della paternità. Che effetto le ha fatto?

“Mi ha colpito, sì. La paternità la vedo come una possibilità nella mia vita, ma non come qualcosa di vicino. Penso che sia una delle gioie più grandi che una persona possa provare, ma allo stesso tempo mi sento ancora… non giovane, perché non credo sia una questione d’età (sarebbe anche ridicolo dirlo oggi) ma piuttosto per come sono fatto io. Mi considero ancora in una fase in cui voglio preservare una certa immaturità, che per me è anche positiva. Ho parlato spesso di questo anche in riferimento al mestiere dell’attore: credo che per fare questo lavoro serva anche conservare una sorta di giocosità infantile, di immaturità controllata. Finché sento che questa parte di me mi serve, voglio tenerla viva. E, proprio per questo, non mi sembra ancora il momento giusto per mettere al mondo una persona. Non mi sento ancora pronto, non mi sento ancora abbastanza maturo, nel senso profondo e responsabile del termine. E non lo dico con accezione negativa: è solo che so che ci vuole una grande consapevolezza per diventare genitori”.

Manuel a un certo punto sceglie di partire, di scappare da tutto. Oggi, per lei, per Damiano, che cosa significherebbe “scappare da tutto”?

“Per me, scappare da tutto significa prendere uno strumento e suonare. È quello, da sempre. La musica per me è la via di fuga, la valvola di sfogo, il rifugio. Che sia ascoltarla o suonarla, non importa: la musica ha davvero mille modi per essere vissuta e per aiutarti a uscire da ciò che stai provando. Io la vivo proprio come un’altra dimensione in cui entrare: qualsiasi cosa succeda nella mia vita – gioia, rabbia, delusione, amore – uno dei primi impulsi è sempre andare lì, su quelle corde o su quei tasti. Non cerco soluzioni esterne, non mi metto a camminare per ore, come fanno altri. A me basta suonare, anche solo per cinque minuti, per riuscire a ridimensionare tutto. È un modo per mettere le cose a fuoco, per farle diventare meno pesanti. E poi, è da quando sono bambino che è così: da piccolo mi regalavano le chitarrine di plastica, e io facevo finta di essere in concerto. È sempre stata la mia prima forma d’immaginazione, la mia prima evasione. E ancora oggi è così”.

Dei quattro strumenti che suona, ce n’è uno che sente davvero suo, la sua comfort zone?

“Alterno molto tra chitarra e pianoforte. La chitarra è stato il mio primo strumento, il pianoforte è arrivato più tardi, in prima liceo. Ma se proprio devo scegliere, dico la chitarra. Anche perché è portatile: te la puoi portare ovunque. Quando ho girato Prophecy a Torino, per esempio, dovevo restare lì due mesi. Non l’avevo portata con me all’inizio… ma poi non ho resistito: me la sono comprata lì. Non riuscivo a stare senza. Quindi sì, rischio davvero di vivere in una casa piena di chitarre (ride, ndr). Infatti, qualcuna l’ho data a mia sorella (l’attrice e cantante Lea Gavino, ndr), altrimenti non ci stavo più!”.

Eppure, pubblicamente non l’abbiamo mai vista suonare. È perché non c’è mai stata l’occasione? O è qualcosa che preferisce tenere solo per te?

“In realtà non è una scelta rigida. Non è che non voglio mostrarlo, è che è una cosa molto intima. Non voglio dire “privata”, ma sì, intima. Però non escludo affatto l’idea di farlo, anzi… mi piacerebbe moltissimo unire musica e cinema qualora ci fosse un progetto cinematografico che lo permettesse”.

A proposito di progetto giusto… le racconto questa: sabato scorso ho fatto una domanda al gruppo Telegram a lei dedicato. Non so se sa della sua esistenza…

“No, non ne avevo idea!” (ride, ndr).

Ecco, esiste. E ho chiesto: “Se vi venisse data l’opportunità di intervistare Damiano, cosa gli chiedereste?”. Una delle domande più belle è stata: “Qual è il ruolo giusto per Damiano Gavino? Se potesse scrivere un personaggio per sé, chi sarebbe?”.

“Bella domanda. Penso che sarebbe sicuramente un personaggio con una chiave malinconica. C’è sempre in me questa componente: guardare indietro con uno sguardo un po’ tenero, un po’ nostalgico, anche se sono giovane. E però non vorrei un personaggio solo drammatico: mi piacerebbe affrontare quella malinconia con un po’ di leggerezza. Non proprio una commedia, ma qualcosa che racconti questa dualità che sento di avere anche io: passo da momenti cupi a momenti molto solari, non c’è una via di mezzo. Come dice sempre mia madre: ‘Sei uno scorpione, o ti svegli male o ti svegli meravigliosamente bene’. Ecco, un personaggio così: che abbia dentro sia la profondità che la leggerezza. Che racconti un po’ queste due anime che convivono in me”.

E lei come preferisce svegliarsi?

“Ovviamente bene (ride, ndr)! Cerco sempre di svegliarmi bene. La sera vado a dormire proprio con l’intenzione di svegliarmi sereno. Perché se ti svegli storto, è tutto in salita. Meglio augurarsi una bella giornata, anche solo con la testa”.

In Un professore 3, Manuel si confronta con sentimenti molto forti. Due in particolare: la gelosia e la vulnerabilità. Cosa ne pensi lei, partendo proprio dalla vulnerabilità?

“Io credo che la vulnerabilità vada mostrata. Dobbiamo smettere di pensare che, come esseri umani, dobbiamo sempre nascondere le nostre sfaccettature più intime. Non parlo solo dell’uomo inteso come maschio, ma proprio dell’essere umano in generale. La vulnerabilità è qualcosa che va condivisa, ma con le persone giuste, quelle fidate. È con loro che ha senso mostrarla, perché sono le uniche in grado di accoglierla e comprenderla. Poi, chi fa il mio mestiere, chi recita, in un certo senso è ‘costretto’ a esporre quella parte più fragile, anche pubblicamente. Un attore, un’attrice, si mette continuamente a nudo: piange, ride, si dispera davanti a un pubblico. E non è una cosa che succede nella vita reale: se incontri una persona per strada, anche dopo venti secondi che la conosci, non la vedrai mai piangere. Eppure, chi guarda un film, una serie, entra subito in contatto con la parte più profonda di chi recita. E questo è qualcosa che bisogna imparare a gestire in fretta. Perché, se non lo fai, rischi di soffrire. Ma quando ci fai i conti, capisci anche quanto sia fondamentale non solo per il lavoro ma anche nella vita. Mostrare le proprie vulnerabilità, con chi ti sta vicino, permette agli altri di capire davvero le battaglie che stai combattendo. C’è una frase famosissima di Robin Williams che dice: ‘Sii gentile, perché tutti stanno combattendo una battaglia di cui non sai nulla’. Ed è esattamente questo. Se ci pensiamo, è alla base del nostro lavoro di attori: mettersi nei panni degli altri. È un esercizio di empatia costante, che ti insegna ad ascoltare, a non giudicare, a vedere le cose da un altro punto di vista. E lo stesso vale anche nelle relazioni umane”.

E la gelosia? Spesso viene romanticizzata, soprattutto all’inizio di una relazione. Lei come la vive?

“Per me la gelosia non è mai una cosa positiva. C’è questo luogo comune per cui, all’inizio di una storia, la gelosia viene vista quasi come una conferma del sentimento: ‘Se sei geloso, vuol dire che ci tieni’. Ma per me è una gran cavolata… La gelosia è un limite, è un muro che imponi sia a te stesso sia all’altra persona. È qualcosa che, se non controllata, sfocia facilmente nella possessività.
Ed è proprio quello che succede nelle prime relazioni, quando sei giovane e impreparato. Ti ritrovi a provare emozioni fortissime che non sai ancora gestire, e finisce che perdi lucidità. E quando perdi lucidità in una relazione, è finita. Diventi una persona che non ragiona, che fa errori, e fai sentire anche l’altra persona inadeguata. Per me è stato così: l’ho vissuta, ci sono passato, e ci ho lavorato. Ora, con il tempo e con nuove relazioni, ho capito che è sbagliato. Che l’unica strada possibile è accettare la libertà dell’altro, come anche la propria. Se non c’è questo, non si va da nessuna parte”.

Il giudizio del pubblico è una parte importante del suo lavoro, ma anche una delle più difficili da gestire. Qual è stato il commento che lo ha ferito di più? E quello che, invece, le ha dato più soddisfazione?

“Ricevere un feedback su un personaggio che ho interpretato è sempre qualcosa che mi lusinga. Soprattutto quando le persone si rivedono in quella storia, in quel percorso. Mi capita di ricevere lettere o messaggi da gente che mi scrive: ‘Mi hai aiutato in un periodo buio della mia vita’. E per me questa è la cosa più bella in assoluto: sapere che, anche inconsapevolmente, hai portato un po’ di luce nella vita di qualcuno. E parlo proprio di quando sei sul set e non pensi minimamente a quello che succederà dopo, alla messa in onda, al pubblico. Quando lavori con sincerità, con intensità, capita che quello che fai abbia un valore anche per altri. E se poi qualcuno ti scrive per dirtelo, beh… è meraviglioso. Quanto alle critiche, do molto più peso a quello che mi dicono le persone che ho intorno. Sono fortunato perché ho accanto persone sincere, lucide, che hanno il coraggio di dirmi se c’è qualcosa che non va. Non sono persone di parte: sì, tifano per me, ma sono obiettive. Invece, i commenti che arrivano da chi non ti conosce, da persone che magari non ti hanno mai visto nemmeno dal vivo… li prendo per quello che sono. Non è che non contino nulla, ma semplicemente, per come sono fatto io, non riesco a dare loro troppo spazio. E poi, evito di passare ore e ore sui social a leggere tutto. Perché lo sappiamo tutti com’è: lì è pieno di odio. E, se entri in quel tunnel, rischi di uscirne svuotato, avvelenato. Quindi, preferisco proteggermi”.

Stella Adler diceva che un buon attore deve avere la pelle di un rinoceronte e l’anima di una rosa. C’è qualcosa, in questo mestiere, che ha scelto di lasciarsi scivolare addosso perché faceva troppo male, e qualcosa invece che ha voluto tenere con se perché la gratificava?

“Lasciarsi scivolare le cose addosso è davvero difficile. Non è come accendere e spegnere un interruttore, non lo è mai davvero. Però sto imparando a farlo. Cioè, ci sono momenti (soprattutto quando giri scene emotivamente molto intense) in cui è importante avere un certo distacco, per proteggersi. Ho capito che per vivermi questo lavoro nel modo più sano possibile, devo imparare a ‘staccare’ quando serve. Non vuol dire chiudersi, vuol dire riuscire a non lasciarsi travolgere.
Quindi sì, sto cercando di allenarmi ad avere questo ‘interruttore’ che posso accendere e spegnere. Non ci riesco sempre, ma è la direzione che ho scelto. Per quanto riguarda ciò che ho deciso di tenermi con me… sicuramente le mie esperienze di vita. Quelle non me le dimentico. Le emozioni che ho vissuto, i sentimenti che ho provato: tutto questo è la base del mio lavoro, è il materiale su cui costruisco i personaggi. Cerco di non appesantirmi, però. Di non rimanere invischiato nel dolore, nel rimuginare. Uso quello che mi serve per dare autenticità a ciò che faccio, ma poi cerco di voltare pagina. Oggi le rispondo così. Magari fra due anni le dirò tutt’altro. Magari sarò più disilluso, o più cupo, chi lo sa… ma per ora è questo il mio approccio”.

Lei oggi è molto conosciuto. Pensa che in qualche modo la popolarità influenzi il suo modo di vivere le emozioni?

“La verità? No, non credo che abbia influenzato le mie emozioni. Intanto perché, lo dico con sincerità, parlo dal mio piccolo. Non sono certo al livello di chi non può più uscire di casa. E poi perché, per ora, la mia esperienza con il pubblico è stata molto positiva. Le persone, quando mi incontrano, mi ringraziano. E questo mi fa un piacere enorme. Nessuno mi ha mai detto qualcosa di brutto in faccia, davvero. Quindi, finché è così, io continuo a vedere la popolarità come una conseguenza bella del lavoro che faccio. E poi ho la fortuna di avere sempre accanto le stesse persone, da quando ero bambino. I miei amici storici, la mia famiglia. Con loro si ride, si scherza, si prende tutto con leggerezza. Questo aiuta tantissimo a non prendersi troppo sul serio, a non montarsi la testa, a rimanere con i piedi per terra. Perché questo lavoro, a volte, tende a caricare emotivamente. Ci sono giornate in cui esci di casa sereno e ti ritrovi a girare una scena drammatica pesantissima. Torni a casa che sei svuotato. Quindi è importante avere momenti in cui alleggerirsi. E per me la popolarità, finché resta legata a quel ‘grazie’ sincero del pubblico, è qualcosa di bello”.

Fin qui, le sue aspettative sul mestiere dell’attore sono state appagate? O c’è qualcosa che l’ha delusa?

“Le aspettative sono state tutte soddisfatte… e, anzi, sono aumentate. Perché questo è un lavoro che non finisce mai di sorprenderti. È difficile, certo: siamo in tanti, ci sono tantissimi ‘no’, e ogni due settimane ti ritrovi a fare un provino che è come un colloquio di lavoro. A volte non ti prendono, a volte ti prendono. Ma quando succede qualcosa di bello, quando ti dicono ‘sì’, ripaga tutto. Ti dimentichi dei mille no. E poi c’è una magia in questo mestiere. È difficile da spiegare, ma la senti. E man mano che vai avanti, inizi ad aspettarti ancora di più. Perché ti accorgi che ogni volta ha ancora qualcosa da darti. È un continuo salire’.

In Un professore 3 si parla di maturità. Qual è stata, finora, la scelta più “matura” che ha fatto nella sua vita?

“Per me, la scelta più matura è stata entrare nella stanza del mio primo provino, senza sapere minimamente cosa mi aspettasse. È stato un atto di coraggio puro. Perché per me la maturità non è solo esperienza o conoscenza, ma coraggio. Il coraggio di entrare in una via che non conosci, di fare il primo passo nel buio. Quel giorno ho fatto una scelta che ha cambiato la mia vita. E da lì in poi ci sono stati altri bivi, certo: momenti in cui devi dire di no a qualcosa per scommettere su qualcos’altro. Fai all-in, metti tutto sul tavolo. A volte perdi, ma quando vinci, ripaghi diecimila ‘no’. E poi ci tengo a dire una cosa che secondo me si dice troppo poco: i provini esistono. Spesso si tende a dare per scontato che ti abbiano ‘offerto il ruolo’, come se tutto piovesse dall’alto. Ma non è così. Almeno per me, ogni progetto è partito da un provino, da un lavoro dietro le quinte di cui nessuno parla. Ed è giusto che se ne parli di più, perché è una parte fondamentale del nostro mestiere”.

Si avvicina Natale… che cos’è per lei il Natale? E qual è il Natale più bello che ricorda da bambino?

“Amo il Natale. Mi è sempre piaciuto tantissimo, forse anche perché nella mia famiglia è sempre stato un momento speciale, molto sentito. Ho parenti sparsi in tutta Italia e, quindi, durante le feste facciamo delle vere e proprie ‘riunioni di famiglia’. C’è sempre stata una grande armonia, che va oltre i classici screzi che ci sono in ogni famiglia. Ogni volta che ci vediamo, e in particolare a Natale, c’è un’unione fortissima. Ricordo con tanto affetto i Natali da bambino, quando io, mia sorella e i miei cugini venivamo chiusi a chiave in una stanza a mezzanotte. Eravamo piccoli. Staccavano la luce in tutta casa, sentivamo i passi pesanti per simulare quelli di Babbo Natale, e poi riaccendevano facendo ‘oh oh oh’… quelle cose che penso facciano tutte le famiglie, ma che per noi erano magiche. Mia nonna raccontava sempre che da piccola aveva visto gli scarponi di Babbo Natale sotto al tavolo. Noi ci credevamo. E aspettavamo ogni anno la mezzanotte per vederlo, ma ovviamente non succedeva mai”.

Non vi sembrava strano che vi chiudessero a chiave?

“No, assolutamente (ride, ndr)! Eravamo troppo piccoli, troppo immersi nella magia per farci domande. Ricordo anche il momento in cui ho scoperto che Babbo Natale non esisteva… però, in realtà, non fu un trauma. Perché avevo già scoperto che non esisteva la fatina dei denti, quindi… iniziavo a sospettare qualcosa! Alla fine, secondo me, erano parenti… Babbo Natale e la fatina dei denti!” (ride, ndr).

Come tutti, avrà avuto anche lei le sue paure. Le ha affrontate tutte o c’è ancora qualcosa che potrebbe diventare un limite?

“Mi ritengo abbastanza consapevole da capire quando una paura rischia di trasformarsi in un limite.
Non ho mai permesso che accadesse. Perché ogni volta che sento che qualcosa potrebbe diventare un blocco, ne parlo. Ho sempre avuto accanto le stesse persone: amici, affetti veri, quelli con cui sono cresciuto. E il confronto, per me, è tutto. L’abbiamo detto anche prima: se non ti confronti, qualcosa si rompe. E, quando si rompe, non è mai un vantaggio, mai un passo avanti. Parlare delle proprie paure, delle proprie fragilità, è fondamentale. Solo così puoi imparare a gestirle, a controllarle. Non dico a trasformarle in forza, perché sarebbe anche un po’ una banalità da poster motivazionale… Credo che sia già tanto riuscire a tenerle sotto controllo, ad accettarle come parte di sé. Poi magari un giorno, alcune, si trasformeranno in forza. Ma intanto impariamo a conviverci: non tutto si può trasformare. Alcune emozioni vanno solo riconosciute, accettate, e tenute lì finché non si è pronti a gestirle”.

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