Nel tranquillo paesaggio dell’Oltrepò, dove la campagna e i vigneti offrono una cortina di serenità, si è consumata una delle storie più agghiaccianti della cronaca italiana degli anni Novanta: quella di Milena Quaglini, la vedova nera del Pavese. Nata il 25 marzo 1957 a Mezzanino, provincia di Pavia, crebbe in una famiglia segnata dalla violenza: un padre alcolizzato e autoritario, una madre sottomessa e una sorella testimone silenziosa delle botte e degli insulti.
Dopo il diploma in ragioneria, a 19 anni, Milena fuggì, cercando una vita diversa tra Como e Lodi, lavorando come cassiera, donna delle pulizie e badante. Si sposò, ebbe un figlio, ma il marito morì di diabete: la perdita la fece precipitare in un baratro emotivo, in una depressione profonda e in una crescente dipendenza dall’alcol.
Milena Quaglini, legittima difesa o follia omicida
Il primo dei tre omicidi riportati a carico di Milena Quaglini risale al 1995, quando lavorava come donna delle pulizie per un anziano usuraio di 83 anni, Giustino Della Pozza, che le prestava denaro e in cambio avanzava richieste sessuali. Quando lei rifiutò, lui cercò di violentarla e scattò la scena della colluttazione: una lampada usata come arma, e lui ferito mortalmente. Il fatto venne inizialmente archiviato come incidente.
Presto però la situazione peggiorò. Milena entrò in una relazione violenta con Mario Fogli, uomo instabile e alcolizzato, che la picchiava ripetutamente. In questo contesto, la sera del 2 agosto 1998, Milena strangolò Mario con un cordino da tapparella mentre lui dormiva. Nonostante la violenza subita, l’atto segnò un punto di non ritorno.
L’episodio che le valse l’attenzione delle cronache a livello nazionale però arrivò nel 1999. Conobbe tramite un annuncio un uomo di 53 anni, Angelo Porrello, condannato anni prima per abusi sessuali su minori. Lui la ospitò, la umiliò e la picchiò. In una reazione estrema, Milena lo avvelenò con un caffè carico di sonniferi, lo affogò nella vasca da bagno e nascose il corpo in una concimaia. Questa volta l’atto non venne imputato a una semplice difesa, ma il tribunale lo classificò come vendetta, rabbia e disperazione.
La condanna sembrava ormai segnata. Milena venne rinchiusa nel carcere femminile di Vigevano, dove per un periodo sembrava aver trovato una sorta di quiete: dipingeva, partecipava a laboratori, provava a ricostruirsi. Ma il peso della vita, delle scelte, della violenza subita e inferta, era troppo. Il 16 ottobre 2001 si tolse la vita impiccandosi con un lenzuolo nella sua cella.
Una storia che divide l’opinione pubblica
La storia di Milena Quaglini è controversa e carica di contraddizione. Non è soltanto l’elenco di tre omicidi, ma è la narrazione di una donna che fu vittima e carnefice, che assorbì la violenza nella sua infanzia e che a sua volta fece del male a chi glielo ha inferto. Si è trattato di una donna che ha diviso l’opinione pubblica e che impone una riflessione sugli effetti della violenza subita, che possono essere devastanti.
La violenza, se ignorata, non muore: fermenta. Una ragazza che conosce solo botte e paura può trasformarsi in un adulto che conosce solo rabbia e colpa. La distinzione tra difesa e vendetta, tra reazione e aggressione, può essere labile, specie quando la psiche è ferita. La società non sempre offre vie di uscita a chi costantemente subisce: il risultato può essere estremo, distruttivo e tragico.
Milena non è solo un nome sui giornali né un capitolo nero della cronaca nera, è un monito. Un monito che dice: ascoltate chi urla nel silenzio. Supportate chi viene emarginato. E non pensate che vittima voglia dire solo vittima. Perché a volte la fine della violenza non è la pace, ma l’inizio di un nuovo male.






















